Domenica 27 novembre si svolgerà la terza edizione di TEDxTrento dal titolo “Prove di volo”. Fra gli speaker dell’evento all’insegna dell’innovazione e di “ideas worth spreading” c’è Daniele Nardi, alpinista innamorato a tal punto delle scalate da aver affrontato sia l’Everest che il K2, ma anche ambasciatore per i Diritti Umani e appassionato fotografo.
Tante sono le imprese che questo visionario alpinista di Sezze (LT) ha intrapreso: toccare gli 8000 sul Cho Oyu, scalare in solitaria l’Aconcagua e realizzare in velocità la salita Middle dello Shisha Pangma. Eppure, le sue vere “Prove di volo” sono state la scalata invernale dello sperone Mummery al Nanga Parbat: un sogno visionario, per cui si è armato di piccozza e ramponi, attraversando speroni di roccia e ghiaccio a 50 gradi sotto zero e sopportando la solitudine di lanciarsi in una sfida folle, al limite del possibile. Lo abbiamo intervistato in anteprima.
Daniele, sarai uno speaker di TEDxTrento dal titolo “Prove di volo”. Curioso che un climber e alpinista debba misurarsi col concetto di “volo”. Cosa significa per te volare?
Bella domanda. Se devo rispondere da un punto di vista prettamente tecnico, volare significa dominare le proprie paure per poter superare dei limiti. Sia quando scali su roccia che nell’arrampicata sportiva vedi subito chi non teme di volare nel vuoto per spingersi oltre un limite. Nell’alpinismo invece il concetto cambia perché in quel caso volare non è salutare; può capitare, però. In questo caso volare assume il significato di avere il coraggio di affrontare grandi imprese o scalate molto ardue. Prendere il coraggio a due mani e lanciarsi in un’avventura: questo è già importante. Nel mio caso ci sono stati momenti in cui sono letteralmente volato ed è andata bene, non solo sul Nanga Parbat.
A proposito. A volte il volo può essere anche verso l’ignoto. Questo è il titolo che hai dato al tuo documentario sul Nanga Parbat. Che avventura è stata quella sul Nanga? Un volo pieno di turbolenze?
Sì, un volo con molte turbolenze già dalla genesi dell’idea che era la volontà di fare qualcosa di diverso dal “semplice” salire in vetta sul Nanga Parbat in invernale. La mia idea era aprire una via nuova seguendo le orme di Mummery, quindi in stile alpino. Partendo da quell’idea c’è stato un lavoro incredibile anche solo per ottenere i permessi di scalata visto che era successa da poco la grande tragedia al campo base. A un certo punto ho cambiato idea rispetto alla sfida dello “stile alpino” e per molto tempo è stata una sfida straordinaria, fatta di valori e amicizia. Poi il famoso “volo” a 6.000 metri, per restare in tema, mi ha fatto capire che in realtà io avevo in qualche modo corrotto quella mia idea iniziale ed ero addirittura disposto a fare i grandi voli da alpinista. Avevo cambiato troppo la mia idea e, giunti a quel punto, non si è più disposti ad andare oltre certi limiti. I voli che noi facciamo, nella nostra vita, hanno valore fintanto che seguiamo le idee e i valori che ci hanno ispirato. Quando questi cambiano, ci si accorge che non si è più disposti a farlo.
C’è un aspetto di che colpisce: la forte attenzione ai diritti umani grazie al tuo ruolo di ambasciatore. Può l’alpinismo essere uno strumento per promuoverli?
Assolutamente sì. Nell’ultimo anno, per partire da un’esperienza diretta, ho sentito dire che in montagna “le regole non esistono“. Questo non è affatto vero. Sia gli alpinisti che definiscono i propri stili, le loro idee e che si danno delle regole, sia la montagna stessa con le sue pareti e caratteristiche che ti impongono di scalarle in un certo modo, sono lì a dimostrarlo. La definizione di regole, in fondo non significa altro che mettere dei tasselli sui quali le persone si possono comprendere e avere un accordo. Lo stesso accade nei diritti umani. La montagna mi ha insegnato che per poter affrontare assieme una sfida, occorrono delle regole; non cattive o restrittive, ma condivise sì. Questo serve innanzitutto per garantire la libertà di tutti. Come disse Dario Ricci di Radio24 “i diritti umani dovrebbero essere la carta costituzionale di tutto il mondo“; solo così le persone potrebbero vivere in pace. A dicembre lanceremo un nuovo progetto dedicato ai diritti umani che prevede il raggiungimento di diverse vette per dimostrare che, rispettando i diritti umani, possiamo vivere l’avventura e la libertà nel modo più etico possibile.
A proposito di diritti umani e alpinismo etico, cosa ne pensi della situazione al campo base e in Nepal fra spedizioni, danni provocati dal terremoto e sovraffollamento delle vie?
Io non mi ritengo “un puro” dell’alpinismo che è cresciuto con lo stile alpino. Tutto quello che so lo ho imparato sulla mia pelle; le prime spedizioni, per quanto fossi molto preparato, mi ritrovavo con qualche sherpa che montava una corda fissa oppure attaccato alle jumar per salire delle pareti come mi è capitato nel 2004 quando sono salito sull’Everest. Io, ad esempio, ho aiutato a fissare delle corde fisse ma non ero io il principale artefice di questo quindi negli anni ho migliorato il mio stile. Spero che questo serva da esempio per capire che possiamo cambiare, e indubbiamente le cose sull’Everest devono cambiare. Non è possibile vedere decine di persone accalcate per salire una vetta, però allo stesso tempo non mi sentieri in diritto di negare agli sherpa e al popolo nepalese o tibetano di poter concedere la loro montagna. Pensiamo un secondo alle funivie che troviamo sulle nostre montagne; noi non abbiamo messo solo delle corde fisse ma addirittura dei cavi con il motore e col biglietto da pagare per salire. Il diritto di spiegare cosa andrebbe fatto sull’Everest, per questo, non lo sento mio; torniamo però al tema fondamentale delle regole. Solo quelle, se condivise, possono aiutarci a migliorare la situazione, in particolare per rimuovere bombole di ossigeno, corpi e rifiuti da quello che è, prima ancora di una montagna, un patrimonio del nostro pianeta.
Dopo ogni volo, si sa che si pensa già a quello dopo. Cosa hai in programma per il futuro?
Ho preparato un progetto alpinistico per i prossimi tre anni e, in questi mesi, ho ricevuto decine di messaggi che mi hanno fatto enorme piacere. Piano piano le persone hanno capito cosa volevo intendere quando a un certo punto, senza dire nulla a nessuno, ho fatto i bagagli e sono tornato a casa. Qualche giorno mi è arrivato un messaggio con scritto “caro Daniele, mi spiace che le cose non sempre vengono pubblicate per tutti. Sono incappato in un tuo video e ho compreso questa cosa. – poi mi fa un augurio dicendo – Ora non perdere l’entusiasmo e la tua passione perché sono la cosa più preziosa che hai comunicato”. Ecco, io posso garantire che ho ancora più forza ed entusiasmo per proseguire sul mio percorso all’inseguimento di un sogno. La vetta non è solo quel punto fisico ma è uno stile, è l’amicizia, è l’etica ed è quel senso dell’avventura che ognuno deve portare avanti fino a quando ha coraggio di crederci. Solo così, in fondo, si può volare.
Andrea Bonetti – MountainBlog.it