Si apre il sipario in questo 2017 fatto di sogni, lavoro, famiglia e fortunatamente anche montagne ed entusiasmo. Nei buoni propositi del 2016, per ognuno di noi, ci sono tante cose belle e, in un angolino della mente, i molti ostacoli che si opporranno ai nostri viaggi onirici. Ci vuole molto cuore e spesso anche molta fortuna per poterci avvicinare davvero a ciò che vorremmo raggiungere… ma si può fare… si può fare… come diceva il buon Gene!
Proprio per questo, andando “in scena” su questo palco, per le prime battute di questo nuovo anno, voglio parlare di un alpinista normale, persino di pianura, che si è trovato su alcune tra le più storiche e ardite pareti di roccia e ghiaccio e nelle montagne più alte di vari continenti, sino a superare la fatidica quota 8000.
Davide Chiesa, è un alpinista e uno scrittore, nato Castel San Giovanni provincia di Piacenza nel 1968, che oggi si dedica anche al trail running e alle attività outdoor. Per raccontare le sue esperienze ha coltivato anche altre dimensioni artistiche, sue passioni, come la fotografia. Moviemaker molto attivo è stato in grado di comporre documentari e reportage persino oltre la zona della morte.
Quali sono state le tue spedizioni?
Nel 1996 in Bolivia un 6000 e un 5000. Poi dopo una lunga pausa sono tornato in Himalaya su un 7000, fallito, il Baruntse nel 2010, poi nel 2011 in cima al Manaslu (8163 m) usando una bombola di ossigeno dai 7400 metri dell’ultimo campo, effettuando una salita e discesa di velocità. Nel 2014 ho tentato l’Aconcagua (6962 m) invitato dal CAI Acqui per creare un film della spedizione, fallita per il “Viento Blanco”, giungendo alla vetta nel 2015 in seconda spedizione.
Al Manaslu devo ringraziare Silvio Mondinelli che aveva creato un bel gruppetto di italiani a metà un po’ vecchiotti gli altri un po’ più giovani , di cui uno come me, Marco, alla prima volta così in alto.
Posso dire che è stata un po’ duretta perché ora, con il senno di poi, è maturata la migliore esperienza; con gli allenamenti debbo dire che ero partito troppo stressato.
Per il resto posso dire che i miei compagni di spedizione mi chiamavano Fellini perché continuavo a fare foto e riprese video, la mia soddisfazione personale e il miglior obiettivo che mi ero posto, era realizzare un bel documentario soprattutto il giorno di vetta, che è il giorno più duro è più difficile in cui anche fare foto e film diventa veramente un vero problema e un gran sacrificio.
Avevo letto un tuo reportage sulla nord del Gran Zebrù: parlaci di quell’esperienza.
Sul Gran Zebrù ho avuto la fortuna di vivere vere avventure ed esperienze, sentivo che tra me e quella montagna era nato un feeling. Non solo sulla parete nord, ma anche sulle altre pareti… Vie nuove, invernali, bivacchi, valanghe e tempeste… ma anche la gratificazione di aver fatto conoscere quelle montagne a tante persone ed alcune, anche neofite, averle accompagnate fino in vetta.
Come fu l’incontro con Kurt Diemberger?
Avevo scritto il mio primo libro e a tanti la bozza era molto piaciuta, essendo il debutto editoriale di un perfetto sconosciuto, nonché un alpinista normale come amo definirmi, avevo pensato a una bella prefazione ma doveva essere di un alpinista che aveva talento anche nella scrittura.
Volli azzardare e semplicemente gli mandai la bozza nero su bianco del mio libro senza le fotografie che poi nella versione finale erano numerose e parte integrante del libro.
Il testo a Kurt era molto piaciuto e mi scrisse una bella prefazione.
Parlaci dei tuoi libri
Ho sempre scritto sia per me nei diari, e inizialmente nei notiziari della mia sezione CAI e poi su riviste importanti come Alp, Rivista della montagna, Pareti, e poi in maniera quasi stabile per alcuni anni per la Rivista del Club Alpino Italiano.
Anche in questo caso devo dire che sono stato motivato da un paio di persone che hanno sempre apprezzato i miei scritti tra cui Lino Pogliaghi e in secondo luogo il mio primo editore Francesco Cappellari. Mi convinsero che era un peccato tenere il mio stile di scrittura relegato a semplici articoli e riassumere tutto in un bel libro che poi è una cosa che rimane.
Assieme alla fatica di scrivere un libro, e tu sai bene a cosa mi riferisco, in me era subentrato anche il divertimento.
Il mio primo libro, amato dai numerosi lettori, ha avuto due edizioni, si intitlola MONTAGNE DA RACCONTARE Storie di ghiaccio, di avventure, di uomini.
Nel 2014 ho pubblicato il mio secondo libro: “L’Anima del Gran Zebrù, tra Misteri ed Alpinisti – 150 anni di storia, racconti, itinerari della più bella montagna delle Alpi Orientali“, delle Edizioni Idea Montagna (prefazioni di Umberto Martini, Don Josef Hurton e Florian Riegler): un enorme lavoro durato oltre 10 anni, opera che è stata molto apprezzata perchè nessuno aveva mai scritto un libro su questa bella, amata e temuta montagna.
Come e quando hai cominciato ad andare in montagna?
Negli scout da ragazzo
Ricordo una bel documentario che parlava di Curletti e del piacentino di ghiaccio: raccontaci.
L’attività su ghiaccio e su cascate mi ha impegnato e appassionato per tantissimi anni mi dava estrema soddisfazione riuscire a filmare in così in condizioni così precarie.
Trovato qualche sponsor ho realizzato il film aiutato anche da numerosi amici, tra cui Stefano Righetti e Ezio Marlier.
Sei un accademico del GISM, il Gruppo Italiano Scrittori di Montagna: com’è inizita quell’avventura?
Devo ringraziare l’amico scrittore di Milano Lino Pogliaghi che mi ha parlato del Gism e fatto entrare in questo prestigioso sodalizio.
Come e quanto ti alleni?
Sono stato un alpinista classico, per oltre 15 anni, con predilezione per le vie di ghiaccio e misto in alta quota con anche attività di ricerca e da alcune solitarie ed invernali.
Nella vita si cambia ed ora, negli ultimi anni, sono molto appassionato dalla corsa running e trail running e le attività di movimento e resistenza come per esempio salire in modo leggero e veloce le cime – veloce per quanto compatibile con la mia età 🙂 – anche fino a quelle dei 4000 facili tecnicamente, partendo direttamente dal fondovalle in giornata. Dato che faccio un lavoro sedentario e che ho una figlia di soli 5 anni con la quale condivido tanto del mio tempo libero, mi alleno nei ritagli di tempo, facendo i salti mortali come tutti i “mortali” non professionisti che amano tanto la propria passione: una cosa che tengo sottolineare è di quanto sia difficile, oltre agli aspetti appena esposti, allenarsi in montagna per chi come me abita in pianura in un clima, quello padano, tra i peggiori al mondo… nebbia, caldo afoso, umidità, inquinamento. Vorrei far provare a un alpinista che abita in montagna, e che magari pure è professionista, di quanto duro e diffcile possa essere mantenere la forma per fare performance in montagna; farlo abitare a Piacenza per un mese e poi chiedergli se è allenato e se si sente in forma… Siamo noi i veri “eroi”, facciamo sacrifici enormi (oltre che migliaia di chilometri chiusi in auto) non avendo le montagne fuori dalla porta di casa e non abitando magari a 1500 metri di quota! Ma appunto per questo siamo più felici quando arriviamo in cima … il valore intrinseco è molto elevato.
Il tuo prossimo progetto?
Ovviamente, appena posso, andare spedizione, che è qualcosa di magico soprattutto nelle montagne del Nepal e di questo che cercherò di raccontare nel mio prossimo libro nel quale accompagnerò al lettore nell’incredibile, controverso, eccezionale mondo degli altissime quote e delle spedizioni: un bel libro fotografico con didascalie profonde e introspettive, dal taglio intrigante e poetico, che narra di questi viaggi che amo definire “pellegrinaggi” e che riassume le spedizioni effettuate in giro per il mondo sulle belle montagne extraeuropee che ho avuto la fortuna di visitare.
Mi piacerebbe tanto, comunque, tornare in spedizione: in spedizione trovi nel disagio (che poi si trasforma in libertà e divertimento e benessere) tutto di ciò che serve al nostro essere uomini, l’essenziale, e ciò che non trovi e che non c’è, lo ritrovi quando torni a casa, apprezzandolo ancor di più.
Christian Roccati
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