11 agosto… Un ora e 40′ di sonno e pronti all’hotel, insieme al gruppo, per partire. Dieci minuti di pulmino fino all’aeroporto locale. Voletto interno sino a Isafjordur, piccolo agglomerato fra le coste del nord ovest; una microcittà congelata in un passato anni ’80 in cui la ricchezza arrivava dalla pesca dei merluzzi, oggi quasi scomparsa.
Si riparte, sempre più lontani, mediante una quarantina di minuti di pulmino, un veicolo uscito da una serie televisiva di trent’anni fa e finalmente la barca. Facciamo accomodare il team e si parte; mi occupo di un alpinista molto forte che soffre il mal di mare. Con pochi consigli sui tre tipi di equilibrio, il malessere rimane quieto e silente, non si desta. Il drago ha un altro drago dentro di sé, che teme l’acqua.
Due ore di barca verso il lontano Hrafnfjordur e finalmente superiamo il piccolo capo Skipeyri, intorno al 66° grado di latitudine nord. Vediamo lontani rettangolini bianchi, in un altro fiordo, il punto in cui incontreremo nuovamente la “civiltà”, fra una settimana, poi anch’essi scompaiono, come la memoria nella risacca dei frangenti.
Il comandante cala un gommoncino con una superficie simile a quella di una Fiat 500 e in tre viaggi riusciamo a salirci in 13 più 300 kg di bagaglio e a raggiungere la costa in un punto arretrato rispetto alle iniziali cordinate prescelte. Il basso pescaggio non permette altro, e mediante catena umana, nessuno si bagna.
Il suono del motore scompare, siamo soli.
Il cammino ha inizio e il tempo scorre, tra le preziose lezioni di Andrea e il cibo che prepariamo per il gruppo a base di salmone islandese, formaggio, gallette e dolcetti. Mi volto a cercar pareti e sogno vie e aperture, non posso farne a meno, ovunque io sia.
Il cielo è magnifico per quest’area. I locali usano dire “Se non ti piace il tempo islandese, aspetta cinque minuti”. Risaliamo la valle di Skorardalur, in un ambiente ameno che, anche se scherziamo allegri, tocca la parte più intima del nostro Io e non ne vuole sapere di lasciarla stare.
Mi sposto lentamente in risonanza con l’armonia del luogo, un passo dopo l’altro. Il mio zaino pesa 25 kg, dato che porto per me e per il gruppo. Sto in fondo, sono un lupo pastore.
La meraviglia non ci abbandona e ci affacciamo su Skorarvatn. La mia mente non può che volare ai piani del Nivolé; ricordo lo sguardo di mio zio e la sua pelle d’oca, che giungeva ogni volta perché per lui, ogni volta era la prima.
Giungiamo ai primi timidi guadi che possiamo saltare, lanciandoci gli zaini “leggeri” o usando me per quelli pesanti, in spaccata tra le sponde, come ponte umano calato da una catena di braccia amiche. Superato anche questo piccolo ostacolo, andiamo a nord ovest fino a raggiungere Furufjordur, dove creiamo il primo campo.
Andrea “la guida” è in testa, Andrea “il fotografo” in coda, e io dietro di lui. Ogni tanto si volta e sobbalza… “Sono abituato ad esser l’ultimo senza questa presenza silente che però mi dà sicurezza”. Sorrido.
Adrea ed io, ci dividiamo di nuovo i compiti, senza nemmeno parlare; raccolgo la legna, trovando alberi portati dal mar di Norvegia, dato che qui non esistono i boschi… C’è anche il bastone di Gandalf, sono certo che sia lui!
La cena è calda e piacevole: pasta al pomodoro e persino cioccolato. La serata non dura molto, qualche ora, perché fa freddo e tutti son stanchi. Lavo le pentole e mi preparo per andare a letto a mia volta… ma putroppo accade uno spiacevole inconveniente. La temperatura dell’acqua mi fa alzare entrambe le unghie dei pollici; carne viva in evidenza. Non male per iniziare: conosco queste ferite, guariranno in una diecina di giorni. Proprio ciò che ci voleva… Pazienza, sentirò male qualsiasi cosa stringa. Il mio corpo imparerà a difendersi e a farsi furbo la prossima volta.
La notte è magnifica. Non ci sono stelle perché il cielo non diventa nero, ma si sentono brillare, lassù, anche senza vederle; è un rumore intensissimo che non si avverte con le orecchie.
Mi lavo e asciugo, faccio il bucato e stendo, poi mi corico. Scrivo il diario, leggo, mi rilasso.
Progettiamo la tappa di domani e giunge l’ora di dormire.
La notte è mia. C’è stato un tempo in cui pensai che fino a quando avessi visto una tenda sulla mia testa, sarei stato felice e al sicuro, le cose sarebbero andate bene. Sono passati molti anni, quella tenda non esiste più, e nemmeno la persona con cui ebbi quel sogno. Ma ho nuovamente un telo sul mio volto, e forse, forse quel pensiero era vero.