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16 Settembre 2015

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16 agosto – Ultima tappa, verso Hesteyrarfiordur

Un tempo, fino a tre anni fa, la mia giornata iniziava e finiva in luoghi selvaggi, dove il cronometro, le patacche, e i numerini, perdono significato come fine, al massimo utli come mezzo, nulla più. Sapevo che prima o poi sarei ritornato alla mia vita, semplicemente non avevo idea del quando ciò sarebbe accaduto.

Immaginavo di solcare ancora orme di neve verso luoghi in cui una canzone di Enya, o qualcosa di simile, si sarebbe adagiata alla perfezione, ricalcando esattamente il profilo del mio cammino. Pensavo a un ritorno sulle armoniche “Into the West”, intonata da Annie Lennox..

Foto Andrea Gabrieli

Foto Andrea Gabrieli

Baia di Hloduvik… oltre il 66° parallelo, verso l’artico. Sveglia… doccia gelata, toilette, colazione, campo.

Tutto secondo uno schema semplice, chiaro, istintivo; animali, ecco cosa siamo, il più grande complimento che possiamo farci.

Chiedo aiuto a Massimo e Gianluca; hanno finito di comporre gli zaini e sono molto forti. Dobbiamo economizzare le energie; se ci fosse tempo sufficiente sarebbe utile l’implementazione di un ponte sul piccolo guado. Abbiamo pochi minuti; se il gioco funziona eviteremo il primo ostacolo, altrimenti, solito fresco risveglio.

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Guardiamo la corrente… possiamo scegliere un tratto ristretto in una rapida o un guado largo, ma su terreno più facile. Optiamo per la prima ipotesi usando tronchi “leggeri” da mettere a sistema. Purtroppo pare che il compito sia ostico e necessiti di più tempo del previsto; per velocizzare la creazione, prendo la rincorsa e salto i sei metri del letto del torrente, da sponda rialzata a sponda rialzata. Lavorando dall’altra parte, valuto la situazione; non ha senso con la tempesta in arrivo, rischiamo solo di perdere tempo utile.

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Mi dispiace; avrei voluto aiutare i miei amici in modo che non si bagnassero. Mi rimbocco i pantaloni e attraverso la corrente per trasportare gli zaini delle ragazze e per aiutare durante il passaggio.

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Il percorso ha inizio sotto i contrafforti dell’Alfsfell e i crinali di Fannalàgarfjall. L’ambiente è come sempre incredibile; la descrizione che darei a questo manipolo di appassionati, risulta la medesima . Gente vera, schietta, che ti guarda negli occhi quando deve parlarti di qualcosa, qualunque essa sia.

Mi ritengo davvero fortunato ad averli consciuti.

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Percorriamo la baia nell’area di Kjaransvik, verso un nuovo guado in un dedalo di tronchi che inseguiamo in equilibrio, incontrando l’unico supellettile metallico dell’intera penisola. Mi sento quasi trasportato in uno dei primi storici film con atmosfere alla disaster movie.

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Ci lasciamo alle spalle anche quest’unico segno di civiltà e controllando la pressione iniziamo a salire verso il passo di Kjaransvikur Skaro.

Dopo aver vinto la prima balza, in direzione del colle, ci troviamo in un ambiente incredibile. La neve è vicina eppure gli sfasciumi vulcanici lasciano il posto a un tappeto verdeggiante di muschi in grado di far galleggiare su se stessi l’acqua, in enormi gocce.

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Sono in coda, come sempre, insieme ai miei compagni ma anche ai miei pensieri che qui volano. Essi dentro e fuori me, come se non solo il mio corpo, ma anche la mia mente, risultassero un involucro, una sottile pellicola, il contorno inesistente di qualche cosa di più forte, fine, etereo eppure consistente.

Penso a Spiro e alla sua illuminazione a Ravascletto. Staresti bene qui, amico mio.

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Giungiamo infine sul passo; gli scarponi di Chiara cedono del tutto, nonostante l’utilizzo di corde, fettucce e sagole.

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Elena presta un suo paio di scarpe per questo tratto e il problema è risolto.

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Possiamo scendere con attenzione. Temevamo la tempesta, Andrea e io, ma i nostri amici sono stati organizzati, precisi, veloci, puntuali. Il cielo si gonfierà per urlare, ma noi saremo già molto lontani.

Scendo dapprima arretrato, per farmi un’idea della situazione, e poi sulla traiettoria di mezzacosta più bassa possibile, rispetto al gruppo. Guardo le ragazze, abilissime e scaltre, ma presto attenzione lo stesso, tra chi ha male a un tendine e chi usa calzature in prestito. Pronto a prender al volo chiunque scivolasse per errore.

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…e infine compare dinnazi a noi… il fiordo.

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Valutiamo mediante il barometro la situazione attuale e decidiamo di fermarci a mangiare.

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Anche sul versante sud ovest gli spettacoli fitologici non mancano e noi non ne disdegnamo la meraviglia.

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Proseguiamo, dapprima parlando di storia dell’alpinismo e dell’arrampicata, e poi, di qualsiasi cosa ci venga in mente. Sappiamo che al termine del nostro viaggio troveremo una casa adibita a rifugio. Pensiamo a porte, finestre, un tetto, e ci sembra di esser diretti verso una metropoli a misura d’uomo.

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Ed è quando meno te lo aspetti che il tuo obbiettivo ti raggiunge.

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Guardo il cielo; probabilmente non solo la canzone che avevo immaginato può dipingere questi momenti… forse l’intera colonna sonora del Signore degli Anelli, potrebbe lontanamente aiutare ad avvicinarsi a questo istante.

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…e infine ci siamo… entriamo nella locanda, tornando a un mondo contemporaneo, saltando a pié pari il periodo moderno.

Ordiniamo birra e ciò che ci viene in mente. Risulta strano a chi non è più abituato alle possibilità moderne: ordinare qualcosa e trovarlo davanti alla faccia, senza razionarlo, senza doverlo dividere, ma potendolo gustare senza peso o colpa.

Cerco e trovo il libro del rifugio e lo faccio passare tra i ragazzi. Tutti scrivono e firmano. Io aggiungo uno schizzo relativo alla volpe artica. Non mi viene un gran che bene, me ne rammarico… ma poi penso “pazienza”.

Prima di partire, mi ero avvicinato al mondo vichingo, per motivazioni che non c’entrano con questo viaggio. Una sera mi rimisi gli orecchini che portavo da ragazzino, decidendo di punto in bianco. Riaprì i fori con l’ago dei gioielli, tutti a parte uno, oramai cicatrizzato; mi praticai a forza un buco nuovo nel lobo, cosi da completare la collezione.

Sono appena arrivato al termine di questo primo viaggio e, ora che mi sento di nuovo bene, per festeggiare mi vien servita la birra Vikings. Il kharma ha il senso dell’ironia.

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Niente dura per sempre e anche il tempo del ritorno ci raggiunge, insieme con la barca di Aucur e Stephan e il loro gommoncino da trasgiordo a basso pescaggio.

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Ripartiamo…

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Inseguiamo il fiordo incontrando una balena che ci fermiamo ad ammirare.

Giunti all’aeroporto ho la possibilità di sciacquarmi. Guardo il mio volto allo specchio e finalmente mi riconosco.

Questa sera accompagneremo con 4×4 e Defender il gruppo dapprima a cena e in hotel poi. Andrea e io sappiamo che ci accomoderemo nella casa delle guide, stendendo il bucato con una ragnatela di corde, alle solite, dormendo per terra con i panni a 10 centimetri dal viso.

Ed eccoci tornati alla vita… noi in 9 in tre stanze, in stile accampamento, puliti e spartani. Compongo il mio diario e leggo il mio libro. Ho giusto tre ore per dormire, poi dovrò correre a prender il gruppo.

In quanti posti ho dormito? Quante vite ho vissuto? Mi sembra di avere 100 anni e non ne ho ancora 40. Ho fatto una trentina di mestieri e non so quante siano state le mie occupazioni. Ho visto così tanti luoghi, naturali e non, assaporato cosi tanta arte e moltissime passioni… Sono stato talmente in alto e non so quante migliaia di volte ho dovuto raschiare oltre il fondo.

La vità è faticosa; è stata durissima in molte porzioni della mia esistenza, ma quanto può esser meravigliosa.
Non è possibile comprarla o rubarla.

La vita è vita e non ha alcun prezzo perché non è in vendita.

Christian Roccati
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