EVEREST: il punto sul dibattito fra Jon Krakauer, autore di “Aria Sottile”, e Anatoli Bukreev, autore di “Everest 1996: cronaca di un salvataggio impossibile”, sulla tragedia narrata dal film di Baltasar Kormákur.
L’uscita del film Everest, diretto da Baltasar Kormákur e tratto dal libro “Aria sottile” (Into thin Air) di Jon Krakauer, ha catalizzato l’attenzione del grande pubblico sulla tragedia avvenuta nel 1996 nella quale persero la vita nove alpinisti. Qualche settimana fa, a proposito del film, vi abbiamo dati i 5 motivi per andare a vederlo al cinema (qui il link) e i 5 motivi per non farlo (qui il link). Ad ogni modo, sia che lo abbiate visto, apprezzato o meno, è interessante fare il punto sul libro dal quale è tratto e sul dibattito che si originò fra Jon Krakauer, autore di “Aria sottile” presente nella spedizione di Rob Hall come inviato di Outside e Anatoli Bukreev, guida nella spedizione della Mountain Madness di Scott Fischer e autore di “Everest 1996: cronaca di un salvataggio impossibile” (ne avevamo parlato qui).
I fatti, per quanto ancora dibattuti, come vedremo, fanno riferimento alla spedizione sull’Everest che, fra il 10 e 11 maggio 1996, costò la vita a nove alpinisti. In quei giorni, diverse spedizioni commerciali tentavano di raggiungere la vetta con clienti che avevano investito mediamente 70.000 $ per assicurarsi i permessi di scalata, le guide qualificate come Rob Hall o Scott Fischer e l’indispensabile apporto degli sherpa. Le due spedizioni a cui si fa riferimento sono quella guidata da Rob Hall, alpinista neozelandese che fondò la sua Adventure Consultants e quella guidata da Scott Fischer, eccentrico alpinista originario del Michigan che guidava la Mountain Madness. Assieme a queste due, sulla “Dea del cielo” (come è chiamato l’Everest nella lingua tibetana) erano presenti altre spedizioni: una guidata da Ian Woodall dal Sudafrica, un’altra con lo scopo di girare immagini IMAX con Ed Viesturs e David Breashears, una composta da alpinisti indiani che salirono dal versante tibetano della montagna e un’altra, interamente taiwanese, guidata da “Makalu” Gau Ming-Ho.
Il racconto dei fatti della spedizione di Rob Hall e Scott Fischer, divenuta praticamente unica in seguito alla volontà delle due guide di collaborare per snellire il traffico di alpinisti in coda all’Hillary Step, combacia nelle versioni fino al pomeriggio del 10 maggio. Nel corso della notte precedente, complici delle condizioni meteo favorevoli, le spedizioni si misero in marcia per dare l’assalto alla vetta entro la tarda mattinata o, al limite, il primo pomeriggio. A causa di alcuni disguidi, su tutti l’assenza delle corde fisse che gli sherpa avrebbero dovuto assicurare nel tratto che precede l’Hillary Step, gli alpinisti iniziarono a raggiungere la vetta nel primo pomeriggio. Nel turnover di persone in salita e altre in discesa, l’ultimo a raggiungere la vetta fu Doug Hansen, di professione postino e appassionato di alpinismo, che già aveva tentato l’ascesa con Rob Hall l’anno precedente. Anche per questo, forse, Rob Hall derogò sull’orario limite di rientro per permettere ad Hansen di compiere l’impresa per la quale aveva lottato e sofferto nei giorni precedenti.
Un violenta tempesta, come riporta Krakauer abbastanza comune a dire il vero ad oltre ottomila metri, investì gli alpinisti che si erano attardati per raggiungere la vetta mentre tentavano di fare rientro al campo 4. Da questo momento, fra bombole d’ossigeno ritenute erroneamente vuote, difficoltà di comunicazione via radio, incidenti e condizioni fisiche ormai allo stremo, iniziò una vera e propria lotta per la sopravvivenza che racchiuse tragedie, eroismo, errori e istinto di sopravvivenza in un unico filo. Un filo di aria sottile, parafrasando Krakauer, che in molti casi rappresentò il confine fra vita e morte.
Senza poter entrare troppo nello specifico degli eventi, che potete leggere nei libri di Krakauer e Bukreev o guardare nel film appena uscito al cinema, si vede che il fulcro del dibattito fra Krakauer e Bukreev sta tutto nei tentativi di soccorso degli alpinisti rimasti indietro in fase di rientro; nello specifico, Yasuko Namba, Beck Weathers, Sandy Hill Pittman, Charlotte Fox, Tim Madsen, Scott Fischer e Rob Hall si sapeva e/o ipotizzava fossero rimasti indietro ma ancora in vita, mentre altri alpinisti come Doug Hansen e Andy Harris erano stati dati per dispersi e probabilmente ormai già morti. In mezzo alla tormenta, Anatoli Bukreev si mise da solo a cercare gli alpinisti dispersi, riuscendo a trarre in salvo Pittman, Fox e Madsen utilizzando solo le proprie forze.
Qui, però, le versioni divergono. Mentre Krakauer, pur tributando a Bukreev più elogi che biasimi, accusò l’alpinista kazako di essere stato irresponsabile a salire in vetta senza ossigeno con conseguente necessità di discendere in fretta al campo 4 dopo l’ascesa e quindi non potendo garantire la propria assistenza ai clienti della spedizione, Bukreev rispedì le critiche al mittente dicendo che Krakauer aveva riportato i fatti in maniera parziale oltre a non essersi mosso per dare supporto al tentativo di salvataggio degli alpinisti dispersi nella tormenta.
Terminata la durissima esperienza, nella quale persero la vita Hall, Fischer, Namba, Harris, Hansen e i tre alpinisti della spedizione indiana che tentava l’ascesa dal versante tibetano, fece grande scalpore il salvataggio di Beck Weathers il quale, dato per morto assieme a Namba, trascorse la notte all’addiaccio e fece rientro al campo 4 sulle sue gambe la mattina dopo in condizioni fisiche più che precarie. Contro il parere di molti, Weathers riuscì a superare le difficoltà e venne tratto in salvo attraverso un elicottero dell’esercito nepalese che venne a recuperarlo al campo 2. Il racconto di questa incredibile storia può essere vissuto nel libro scritto dallo stesso Weathers “A un soffio dalla fine: Il mio ritorno alla vita dopo la tragedia dell’Everest” (qui il link da Amazon).
Al di là del salvataggio ai limiti del miracoloso, il dibattito fra Krakauer e Bukreev si infiammò nelle settimane successive al rientro. Da un lato, il giornalista americano difendeva la propria versione dei fatti e dichiarava che, anche volendolo, non avrebbe potuto aiutare Bukreev a causa delle condizioni fisiche ormai precarie che avrebbero addirittura rappresentato un ostacolo ai tentativi. Dall’altro lato, Bukreev respingeva l’accusa di essere stato un irresponsabile a salire senza ossigeno, proclamando che gli alpinisti europei, Reinhold Messner su tutti, gli davano ragione. Scrive Bukreev:
“Mi sono sentito davvero calunniato da quelle poche voci che hanno conquistato l’immaginazione della stampa americana. Se non fosse stato per l’appoggio di colleghi europei come […] Reinhold Messner, sarei rimasto avvilito dalla visione degli americani riguardo a ciò che avevo da offrire alla mia professione.” (Everest 1996. Cronaca di un salvataggio impossibile, Vivalda Editori, 2011)
A dire il vero, poco tempo dopo, Messner intervenne smentendo queste affermazioni e supportando invece Krakauer nelle proprie affermazioni, come si può vedere nel video che riportiamo.
John Meek intervista Reinhold Messner (2011)
Krakauer,una volta letto il resoconto di Bukreev nel libro-intervista curato con Gary Weston DeWalt, scrisse:
“Delle sei guide professioniste che rimasero bloccate sull’Everest da una tormenta il 10 maggio 1996, solo tre sono sopravvissute: Bukreev, Michael Groom e Neil Beidleman. Un giornalista scrupoloso spinto dall’intenzione di descrivere con cura quella tragedia nella sua complessità, probabilmente avrebbe intervistato ciascuna delle guide sopravvissute (come ho fatto io per Aria sottile). Del resto, le decisioni che le guide presero ebbero un peso enorme sull’esito del disastro. Inspiegabilmente De Walt ha intervistato Bukreev ma ha trascurato di sentire sia Groom che Beidleman. (…) Nonostante le mancate interviste a Groom, Beidleman e Lopsang Jangbu costituiscano le disattenzioni più imbarazzanti di De Walt, egli ha omesso di intervistare anche qualsiasi altro sherpa coinvolto, tre degli otto clienti della squadra di Bukreev stesso e gli altri numerosi scalatori che hanno avuto un ruolo cruciale nella tragedia e/o nei salvataggi susseguenti. Può darsi che sia una pura coincidenza, ma la maggior parte delle persone che De Walt ha deciso di non contattare sono state critiche nei confronti del comportamento di Bukreev sull’Everest.” (Aria Sottile, Corbaccio, ed. 1998)
Oltre a questa mancanza, Krakauer accusò Bukreev e DeWalt di aver volutamente storpiato delle testimonianza al fine di screditare la versione del giornalista americano:
“Forse il travisamento più angosciante di Everest 1996 riguarda la conversazione tra Scott Fischer e Jane Bromet (agente e confidente di Fischer che lo aveva accompagnato al Campo Base) a cui si allude nel volume. DeWalt fa in modo che le parole della Bromet suggeriscano, erroneamente, che Fischer avesse un piano predeterminato, secondo il quale Bukreev doveva scendere rapidamente dopo aver raggiunto la vetta, lasciando i suoi clienti sulle più alte pendici dell’Everest. DeWalt insinua inoltre che il fatto che io abbia omesso di menzionare, in Aria sottile, l’esistenza di questo piano sia un perfido tentativo di occultare la verità. In realtà in Aria sottile non vi ho accennato perchè ho trovato forti prove che quel piano non esisteva affatto. Beidleman mi disse che se un piano c’era, lui di sicuro non ne sapeva niente quando il gruppo della Mountain Madness salì sulla vetta il 10 maggio, ed egli è certo che anche Bukreev non ne fosse a conoscenza. Nell’anno successivo alla tragedia, Bukreev spiegò la sua decisione di scendere prima dei suoi clienti numerose volte – alla televisione, su Internet, in interviste su giornali e riviste – , eppure in nessuna di quelle circostanze ha dichiarato di aver agito secondo un piano prestabilito. Anzi, nell’estate di quel 1996, Bukreev stesso, in un’intervista videoregistrata per il notiziario della ABC, affermò che non esisteva alcun piano. Come spiegò al corrispondente Forrest Sawyer, fino al raggiungimento della vetta «non sapevo come, quale fosse il mio piano. Ho bisogno di vedere la situazione e poi agire […] Perchè non avevamo fatto quel piano».” (Ibid.)
La disputa fra i due alpinisti raggiunse il culmine nel 1997 durante il Mountain Book Festival di Banff, quando Bukreev partecipò ad una tavola rotonda ribadendo la propria versione e Krakauer, presente in veste di spettatore, ribatté animatamente alle accuse mosse dalla guida kazaka in uno scontro verbale che venne sedato solo dopo qualche minuto. A margine di quella disputa, Krakauer e Bukreev si incontrarono privatamente e il kazako, secondo il giornalista americano, disse a quest’ultimo: “Non sono arrabbiato con te, Jon, ma tu non capisci.” Stupito per questa affermazione, Krakauer disse di aver proseguito sulla propria strada ammettendo che sulla gran parte dei dettagli le due versioni concordavano, fatta eccezione per la scelta di arrivare in vetta senza ossigeno e di una conversazione fra Bukreev e Fischer che avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di questo piano per il rientro rapido al campo da parte della guida.
Il giorno di Natale dello stesso anno, il 1997, Anatoli Bukreev rimase vittima di una valanga durante un tentativo di scalata invernale all’Annapurna I assieme a Dimitri Sobolev e a Simone Moro. Dei tre alpinisti, solo l’italiano riuscì a salvarsi e a fare rientro. La morte di Bukreev scosse tutto il mondo alpinistico e mise fine alle possibilità di chiarire una volta per tutte l’annoso dibattito.
Da un punto di vista critico, il pomo della discordia sembra essere la scelta di Bukreev di salire in vetta senza l’ausilio dell’ossigeno. Questa scelta, secondo Krakauer e l’opinione di molti, influenzò gli eventi dal momento che rese necessaria una discesa rapida da parte del kazako senza poter assistere a dovere gli altri alpinisti della spedizione. Di contro, l’eroismo di Bukreev salvò la vita a ben tre persone che difficilmente, senza lo sforzo di questi, si sarebbero potuti salvare. Nel libro di Krakauer, dove sono riservati a Bukreev molti elogi, la ricostruzione degli eventi appare più dettagliata e supportata dalle testimonianze degli altri partecipanti. Bukreev, dal canto suo, racconta in maniera molto efficace l’atto eroico di cui si è resto protagonista, evitando di soffermarsi troppo sull’accusa di incoscienza nell’aver rifiutato l’uso dell’ossigeno durante la scalata.
In conclusione, entrambi i libri offrono un resoconto su una delle giornate più tragiche nella storia delle scalate all’Everest. “Aria sottile”, si distingue per la maestria di Krakauer nel descrivere le situazioni e gli stati d’animo vissuti dai protagonisti di quelle giornate, con lo stile di un reporter abituato a raccontare storie di alpinismo e esplorazione. Il libro di Bukreev e DeWalt, è invece più vicino a un resoconto di eventi narrati dal punto di vista di chi descrive una situazione estrema con l’intento di supportare una versione ritenuta discordante rispetto a quella del primo. Il nostro consiglio, è quello di leggere entrambi i punti di vista e farsi così un’idea complessiva su ciò che è accaduto nel maggio del 1996 su una montagna che, fra ascensioni, fallimenti, conquiste e tragedia, è sempre in grado di affascinare alpinisti, viaggiatori e amanti delle sfide dall’alto dei suoi 8.848 metri di ghiaccio, roccia e “aria sottile”.
Andrea Bonetti – MountainBlog.it
Tags: action, Anatolij Nikolaevic Bukreev, Aria sottile, Boukreev, Everest, Krakauer, Rob Hall, Scott Fischer