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10 Dicembre 2012

Senza categoria

Solo per alpinisti provetti?

C’è grande attesa nelle Valli di Lanzo per il film: “Verso la cima della di Bessanese” realizzato da Don Daniele d’Elia, sacerdote pugliese appassionato di montagna. Il breve trailer che ha immediatamente fatto il giro dei blog di settore è molto dinamico, ritmato da una musica che potrebbe essere quella d’un film d’azione hollywoodiano. Gli spot velocissimi, mostrano ragazzi che sfidano la corrente impetuosa di un torrente, scivolano con scarpe d’avvicinamento su glacionevati, arrampicano su pareti di serpentino con protezioni amovibili cadendo con adrenalinici “pendoli”. E’ facile intuire che il trailer abbia già innescato il commento negativo di alcuni accompagnatori delle sezioni Cai locali e di alpinisti conoscitori delle montagne della Valle di Ala. Costoro, infatti, ricavano dalle poche immagini a disposizione una lezione diseducativa di come andrebbe affrontata la montagna, ambiente assai delicato soprattutto quando si ha a che fare con dei ragazzi. Non risulterebbe poi chiaro ad alcuni, cosa possano centrare alcune immagini di arrampicata su ripida roccia, che, di fatto, non s’incontra se si percorre la via normale della Bessanese, né tantomeno il più facile Tour della Bessanese, alla fine meta perseguita dai protagonisti della vicenda. “Quale cima?”, obbietta quindi qualcuno. Devo dire che queste critiche che si sono levate da più parti mi hanno colto un po’ di sorpresa, in quanto ritengo sia necessario vedere l’intera pellicola prima di denunciarne eventuali risvolti diseducativi. Ci si dimentica che un film, anche se mostra velleità pseudo – documentaristiche di fondo, è un pretesto scenico per trasmettere un messaggio spesso diverso da quello che il pubblico si aspetta. Dunque, a meno che non si tratti di un documentario nel senso più stretto del termine, un po’ di finzione o di esagerazione ci sarà sempre.
Pretendere di condizionare l’obiettivo del regista e dell’ideatore della sceneggiatura, volendo ottenere un prodotto “a norma”, significa strizzare l’occhiolino a quella logica liberticida che oggi vorrebbe preconfezionare la frequentazione della montagna, sostituendo il buon senso individuale e la preparazione con delle regole da imporre e da certificare rigidamente a tutti i costi. La morte di ogni anelito creativo insomma. E’ vero, la questione dell’accompagnamento in montagna di gruppi di ragazzi da parte dei sacerdoti è fatto delicato, e proprio sulle nostre montagne ha conosciuto vicende con epilogo anche tragico. Ma non è forse altrettanto vero che l’eccessiva temerarietà unita spesso ad un’incauta valutazione, è più volte costata incidenti alle guide alpine con clienti, a grossi nomi dell’alpinismo, o in gite del CAI con relativi accompagnatori “titolati”? Nessuno è del tutto al riparo dalla potenziale disgrazia, ed è difficile determinare la responsabilità educativa di un film soprattutto se ci si accontenta di un breve trailer. La grande comunità di alpinisti, infatti, non si oppose più di tanto all’improbabile pistola spara – spit di Sly Stallone in “Cliffhanger”, forse con “Vertical limit” il più discutibile film a soggetto alpinistico di tutti i tempi. Anzi, ricordo schiere di guide alpine e amici scalatori che lavorarono sul set del film girato a Cortina d’Ampezzo (ma gli americani nella finzione vollero che fossero le Rocky Mountains), dove “Sly” scimmiottava qualche movimento di arrampicata a tre metri da terra.
E sorrise forse il grande Walter Bonatti, quando, di ritorno dal Dru nel 1955, incontrò sul ghiacciaio un anziano Spencer Tracy tra un gruppo di guide durante le riprese de “The Mountains”. Quel film di Edward Dmytryk, pur onesto e per di più ispirato a un fatto vero, era un esempio di ingenuità alpinistica di primordine, retorico e forse neanche proprio veritiero dal punto di vista tecnico. Eppure ottenne più che la sufficienza dalla stampa e dall’opinione pubblica dell’alpe, costituendo ancor oggi una pellicola che molti di noi rivedono volentieri. Ma tornando al nostro Don, egli a mio avviso si è certamente ispirato al ben più recente “Les Aiguilles Rouges” (titolo italiano “Il coraggio delle Aquile”) di Davy, che racconta le disavventure di un gruppo di scout francesi (le Aquile) che per punizione devono salire al Brevént, dove si perderanno lungo la via del ritorno.
Si tratta di un film delicato, di “formazione”, su cui incombe un’ormai persa guerra d’Algeria (siamo nei primi anni sessanta), immessa nella vicenda dalla corrispondenza epistolare di un ragazzo che ha il fratello impegnato al fronte. Di certo Don Daniele non può misurarsi con l’impareggiabile sceneggiatura di Davy, né probabilmente ne ha l’intenzione. Personalmente vedo di più il sacerdote pugliese come una sorta di “Padre Brown” della montagna. Credo piuttosto (ed è questo che ci aspettiamo) che la bellezza e l’asprezza montagna delle Valli di Lanzo sia solo il pretesto per proporre la visione di un percorso di vita, dove l’iniziazione alla “scalata” corrisponde all’ingresso nella difficoltà della vita reale, adulta, quando la giovinezza è ormai perduta. Non ci si dovrebbe dunque soffermare troppo sugli aspetti tecnici, né attendere un fantomatico tributo all’eroica epopea che ha segnato le nostre montagne lanzesi in passato (del resto non se ne può veramente più!). Si colga invece, laici o credenti, ciò che l’andare in montagna per dei ragazzi può significare nell’intimo più profondo, quali sensazioni visionarie e “dilatate” si possano vivere.
Merce rara in un periodo in cui il tecnicismo esasperato in alpinismo è lo specchio del materialismo della nostra società civile. Chi potrà dire di non aver vissuto sui monti e da ragazzo, quelle sensazioni un po’ guerriere alla ricerca di un proprio infinito, non aspetti dunque l’uscita del film e si limiti già da ora ad esaminarne coerentemente gli aspetti “non a norma”.