Da ormai tre giorni abbiamo lasciato Dhunche, caotico villaggio a 1960 metri di quota, raggiunto con una jeep da Kathmandu attraverso fatiscenti strade polverose.
Siamo ormai dentro il Langtang National Park in salita verso Thulo Shyabru da dove traverseremo la florida foresta del Langtang lungo il “Tamang Heritage Trek”, delizioso cammino nel “patrimonio” dell’etnia nepalese dei Tamang.
Da Shyabru, 2250 metri, tipico paese della media montagna nepalese, una ripida discesa porta a 1550 metri sulle rive del tumultuoso Langtang Khola (affluente del fiume Bhote Kosi – letteralmente fiume del Tibet – che a sud di Dunche prende il nome di Trisuli). Da qui, con faticosa salita senza tregua ai margini del Khola impetuoso, il sentiero prosegue verso le alte quote dov’è la nostra meta.
È novembre inoltrato, ma c’è afa dentro la boscaglia, un umidore che dà fastidio e bagna i vestiti (ma non dovrebbero essere traspiranti?). Bisogna uscire dalla foresta per meritarsi un po’ di respiro. E infatti, improvvisamente, ecco apparire quel territorio oltre il bosco e dentro lo spazio senza vegetazione arborea: la prateria montana. Sul fondo della valle appare il gigantesco e solitario Langtang Lirung, uno dei settemila (per l’esattezza 7227 metri secondo le carte nepalesi) fra i più pericolosi del Nepal.
L’immane parete sud ovest è sostenuta da una quinta rocciosa di un bel marrone chiaro. Sopra si appoggia, come su una frangetta di velluto bianco, una enorme seraccata. Da lì fino alla vetta si allunga un grande ghiacciaio pensile, ferito da una decina di paurosi tagli trasversali carichi di neve fresca. Un fiume solido che potrebbe riprendere il suo cammino in qualsiasi momento. Più a destra serpeggia la cresta sud e, oltre, appare la tormentata cresta orientale sormontata dai cieli del Tibet.
Questa visione mi fa ricordare un fatto angoscioso successo tanti anni fa che aveva lasciato sbigottito e senza parole il mondo alpinistico, soprattutto quello veneto-friulano-giuliano. Era il 1982. Stavo scalando il Monte Kenia quando seppi che su quella montagna, il Langtang Lirung appunto, il triestino Bruno Crepaz, uomo di mare che amava le montagne, aveva fissato un fatale appuntamento con “sorella morte”.
Bruno, classe 1933, era uno dei più forti alpinisti accademici dell’epoca ed era giunto sin qui con una spedizione triestina da lui ideata e diretta per salire la grande montagna del Langtang. Ci riuscì, ma durante il ritorno dalla vetta scomparve in una zona fra il campo 3 e il campo 2. Non si sa esattamente perché, non si sa come; si sa solo che al campo base non giunse mai. Fine della sua storia. Fine (gloriosa) di un grande della montagna.
La valle ora si allarga un po’ e appare il villaggio di Langtang, poche case tirate su a secco come si usa qui, senza cemento, con i serramenti messi prima del muro che viene costruito attorno. Al mio fianco cammina l’amico Mario Fait, presidente della Sezione Val Comélico del Cai. Poco discosti gli altri due amici e compagni d’avventura: Giancarlo Zonta, past president della stessa Sezione e il vicentino (di Nove) Maurizio Dalla Gassa, non alpinista ma “scalatore” in bicicletta, di quelli che i passi dolomitici se li mangia in un sol boccone. Una bella compagnia, serena e entusiasta. Dico a Mario che non si può andare via da questo luogo senza lasciare un ricordo, una preghiera, una semplice commemorazione dell’amico Crepaz, scomparso qui a un tiro di schioppo. Tutti concordano. Con il mio inglese stentato e fantasioso faccio capire le nostre intenzioni alla giovane guida Pandam, un bravo professionista di origine sherpa dell’Helambu. Risponde che ci avrebbe pensato lui.
Il programma prevedeva per il giorno dopo un meritato riposo nella speranza di cieli limpidi e grandi panorami. Invece la giornata è grigia e senza sole. Durante la quale Pandam lavorò di fioretto, rivelandosi ancor più bravo di quanto si pensasse. Estrapolando chissà quali virtù nascoste, riuscì a convincere una giovane e intraprendente “sacrestana” ad aprire, solo per noi e in via del tutto eccezionale, il gompa di Kyangjin, cioè il piccolo e trascurato monastero buddista che si erge, poco appariscente, sopra la collina. Brutto fuori, bellissimo dentro. Pensai che non poteva esistere un luogo migliore per ricordare un amico scomparso in montagna. È vero che è un tempio dedicato a Budda, ma è anche vero che Dio è “in ogni luogo”, almeno così hanno insegnato. E il Dio dei cristiani – pensai – non si offenderà se per una volta lo si chiamerà in causa dall’interno di un tempio buddista.
Fu così che alle ore 16 di sabato 13 novembre 2010, nel vecchio gompa buddista di Kyanjin, attorno ai 4000 metri nel cuore dell’Himalaya, quattro italiani (fra cui un accademico e socio onorario del Cai) ricordarono con una semplice cerimonia il compianto Bruno Crepaz, fratello alpinista di Trieste. Due parole senza pretese, un minuto di raccoglimento, una preghiera mentale, un attimo di commozione fra i magnifici mobili dorati, i grandi tamburi, i lumi accesi, i numerosi libri sacri, le pitture murali di eccellente fattura … e un Budda serafico nel quale non si faticò a intravvedere un altrettanto serafico Cristo benedicente.
Niente di più. Se non che, ironia della sorte, negli stessi giorni se ne andavano, vittime di crudeli malattie peggiori delle peggiori valanghe, due amici legati al “Premio Pelmo d’Oro”: il carissimo “compagno” di giuria Matteo Fiori e il premiato Mario Crespan. Brutto novembre!
Come sarebbe stato bello ricordare anche loro in quel luogo di pace che è il monastero di Kyanjin, ma non sapevamo …
Potrà ora il Dio degli alpinisti – Cristo o Budda che sia – fare da capo cordata ai nostri amici Bruno Crepaz, Matteo Fiori e Mario Crespan? Credo di sì! E, visto che c’è, potrà dare un’occhiata anche allo sloveno Tomaz Humar (uno dei più forti scalatori in circolazione, vincitore del Piolet d’Or 1996) deceduto sul Langtang Lirung il 10 novembre 2009? Credo di sì!
“Ogni montagna ha la sua anima – aveva scritto Thomas sul suo sito – e se tu non ti sottometti ad essa, lei ti distruggerà”.
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