Alle ore 19 del 23 maggio 1915 l’Italia dichiara guerra all’Impero austro-ungarico.
Gli ordini del Comando Supremo italiano furono: valicare immediatamente il Passo di Montecroce Comélico, scendere a San Candido e impadronirsi della stazione ferroviaria. Cosa possibile se si considera che la zona era sguarnita in quanto l’esercito austriaco era impegnato sul fronte orientale contro la Russia e la Serbia.
Invece gli ordini non furono eseguiti, i nostri tergiversarono mentre gli austriaci e i patrioti locali ebbero modo di giungere sul confine e presidiarlo. Fu così che quella che doveva passare alla storia come una “guerra lampo”, durò invece tre anni e mezzo con 680.000 morti solo fra gli italiani e un debito colossale.
Dal Passo di Montecroce il confine fra il Regno d’Italia e l’Impero austro-ungarico correva a nord est fino al Col Quaternà e ai Frugnóni – lo stesso che divide oggi la provincia di Belluno da quella di Bolzano e dalla valle del Gail in Austria – passando ai piedi del Roteck, il famigerato Monte Rosso.
Quindi seguiva la displuviale, cioè la lunghissima Cresta di Confine che si snoda a est fino al Monte Peralba e oltre.
Su questa terra bella e martoriata, dominata dal Quaternà, antico e unico vulcano della zona, si scontrarono duramente italiani e austriaci, ci furono migliaia di morti in attacchi suicidi e in difese medioevali, si videro eroismi e sacrifici d’ogni genere, il sangue scorse a rivoli sulle rocce vinate o diede una pennellata di rosso a quelle grigie.
Gli austriaci sopravvivevano relativamente sicuri nelle loro tane scavate sul crinale; gli italiani salivano per pareti d’erba, o su rocce rotte e ghiaie, senza ripari. E si facevano massacrare.
I morti furono numerosissimi – circa duemila, mica scherzi – in pochi attacchi sconsiderati. Molti furono trafitti dalla baionetta, altri maciullati dalle bombe a mano. Altri duemila – perlopiù austriaci che trovarono l’ingiusta fine proprio nella loro heimat, la loro terra -, morirono soffocati dalle valanghe al seguito della famigerata “morte bianca” che volle la sua parte. Una heimat che dovevano difendere e invece si ribellò e se li portò giù senza pietà lungo i ripidissimi versanti.
La vergogna maggiore di questa brutta faccenda sta nel fatto che la storia ufficiale – cioè quella degli uomini – ha incredibilmente ignorato gli eroi del Monte Rosso, dei Frugnóni, del Cavallino, del Palombìno, del Peralba … ricordando – a volte fin quasi esageratamente – solo alcune battaglie dolomitiche. Come se le guerre si potessero classificare in serie calcistiche di A, B, C.
Nessuna croce sta oggi in questi luoghi, solo una piccola lapide in basso, nessun ricordo, solo due minuscoli cimiteri austriaci, nessun segno italiano. Un paletto di abete alto si e no un metro, cinto di poco filo spinato, si erge malinconico sulla vetta del Monte Rosso. È contorto, quasi a indicare la tendenza di questo mondo strano.
La morte è passata di qua uccidendo soprattutto i piccoli fanti della brigata Basilicata e della brigata Ancona. Soldati del Sud sbattuti nell’estremo lembo settentrionale d’Italia a morire di freddo e di patimenti. Durante la prossima estate gli alpini di Comélico Superiore poseranno sul Roteck una Croce a ricordo.
A riportare alla luce questi episodi in tutta la loro drammaticità è il saggio “La ragazza del mulo” che, lo dice anche l’editor, “si legge come un romanzo, dalla trama composta da una rigorosa ricerca documentale – costata anni di lavoro – e da singole storie di uomini e di donne, che loro malgrado furono protagonisti di una delle pagine più tragiche della Prima guerra mondiale”.
Un racconto corale dove, alle voci dei soldati e al rumore delle armi, fa da controcanto la tenera storia di una ragazza e di un mulo.
È in questo contesto drammatico, infatti, che si infila la cronaca, più che mai vera, di una fanciulla locale. Il suo nome era Luigia Concetta, ma tutti la chiamavano Giséta. Era nata il 1° maggio 1900 a Dosolédo, un paesino dell’alto Cadore incastonato fra le Dolomiti del Popèra, luoghi di natura potente e incantata che nel 1915 vennero travolti dalla furia della Grande Guerra.
Giséta fu una vera eroina locale che visse in questi luoghi la sua semplice storia d’amore e di morte… Dopo la scomparsa nel 1916 sull’Ortigara del primo e unico amore e l’improvviso decesso del padre nel 1917 – conosciuto come Toni il mistär (Antonio il mastro casaro) – la ragazza aveva assunto il timone della famiglia.
Quando alla fine del 1917 le truppe italiane di stanza sulle Creste di Confine si ritirarono verso il Piave e il Grappa, lasciarono nelle baracche di guerra una grande quantità di cibo.
Giséta si portò subito sulla prima linea, cioè sul Quaternà, in cerca di qualcosa con cui sfamare la sua famiglia. Non trovò nulla. Gli austriaci, più morti di fame degli italiani, avevano già razziato tutto.
Scendendo malinconica verso il paese incontrò un mulo, anche lui disperso come tanti altri. L’animale la seguì docile fino a casa dove, dopo un po’ di ripensamenti, fini in padella sfamando mezzo paese. L’improvviso apporto di proteine causò una grave forma di eruzione cutanea che lasciò qualche strascico e indebolì ulteriormente la già provata resistenza.
Giséta guarì, ma non fu risparmiata dalla febbre spagnola che colpì anche quelle valli nel primo dopoguerra. Si spense alle ore 19 del 19 gennaio 1920 all’età di 19 anni, otto mesi e 19 giorni.
Evidentemente il 19 non era il suo numero fortunato.
Italo Zandonella Callegher
“La ragazza del mulo”
1915-1917: il massacro sulla Cresta di Confine
Italo Zandonella Callegher
Ugo Mursia Editore, Milano 2012
Pagg. 400, 46 ill., Euro 19
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