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29 Settembre 2016

Intervista a Gardella: Sei sempre stato qui

Tic, tac, tic, tac… Le mani corrono sulla tastiera per comporre frasi e parole, pensieri ed emozioni, tic, tac, tic, knock, knock…

Bussano; apro e il corriere mi consegna un pacchetto.
“Sei sempre stato qui”, un libro che aspettavo da tanto, dell’amico Eugenio Gardella.

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Eugenio è nato a Genova nel 1969, dove vive; qui intorno tutti lo conoscono come arrampicatore.  Ama i sentieri, i fuochi da campo e la montagna;  scala da quando aveva quattrodici anni. Un tipo tosto: nel 1992 ripete la sua prima via di 8a a Finale Ligure, nell’epoca in cui ben pochi salivano il mitico numerino, nel 1999 un’ernia alla cervicale gli impedisce di fare sport e per molti anni é costretto a fermarsi, ma contro ogni parere medico riesce a tornare a scalare e nel 2016 sigla il suo primo 7c+ di blocco, “Nemico pubblico” a Varazze.

Ciò che poche persone sanno é che da bambino, prima delle pareti e dei gradi, era già etusiasmato da un grande amore, quello per la letteratura e per la scrittura. La sua evoluzione di uomo lo portò a trovare un conflitto con il servizio militare che rafforzò la sua predisposizione libertaria, spingendolo verso un’esplorazione poetica della realtà. Laureato come Educatore Professionale, oggi lavora in ambito sociale.

Sei sempre stato qui è il suo ultimo lavoro, composto ne 2012 e oggi opera importante in libreria.

…si tratta di qualcosa di cui non posso non parlare!

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Di cosa parla il libro?
Una storia di paternità e adozione, narrata da un uomo.
Ci sono un lui e una lei che si conoscono durante una vacanza di arrampicata a Briançon e decidono di fare un figlio, ma i loro corpi fanno le bizze. Quello di lei che non vuole fare figli, quello di lui che non vuole più scalare.
Due viaggi travagliati ma condivisi, anni terribili, operazioni chirurgiche per lui e lei, attese e figli perduti. Poi cambia tutto. Scelgono di adottare un bambino. Questo li conduce a un viaggio di rinascita interiore che li porta a un prodigioso viaggio intorno al mondo e a un dono imprevedibile.

Perché lo hai scritto?
C’era qualcosa di magico in questa storia, un qualcosa che dovevo per forza raccontare. Una storia di dolore, ma anche di speranza e di resilienza. Per tutti quelli hanno problemi fisici, ma non mollano e lottano per tornare a scalare, ad allenarsi e a sognare. Per i miei figli, per tutti quelli che hanno o vogliono figli, per i bambini abbandonati che hanno bisogno di un papà e di una mamma, ovunque nel mondo.

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A cosa pensi possa servire?
Non credo di avere ricette per nessuno. Ognuno è libero di fare quello che vuole della sua vita, avere figli o non averne, scalare oppure no, quello che conta è esplorare. Soprattutto davanti ai problemi irrisolvibili bisogna allargare i significati, guardare oltre, pensare in modo diverso, agire, viaggiare, leggere, studiare e cambiare.
Lamentarsi non serve a niente. Il nostro futuro lo costruiamo con le nostre azioni di oggi. Non esiste destino scritto se non nella nostra testa. Ciò che pensiamo si realizza e allo stesso tempo il mondo è molto più grande delle nostre idee.
Ogni giorno nella mischia, fino all’ultimo istante. C’è sempre una soluzione.

Che rapporto ha il libro con l’arrampicata?
Il protagonista, la voce narrante è un arrampicatore. Ama la parete, cresce con la scalata. Dai fuseaux in licra sgargiante degli anni ottanta, ai blocchi parkour in resina del 2016. In mezzo, nel 1999 una paresi al braccio destro gli impedisce di accedere ai suoi sogni. Tutti i medici per anni lo giudicano, vecchio, inguaribile, ma alla fine, contro tutto e tutti, lavorando duro, allenandosi, ascoltando, la sua mente e il suo corpo, dopo quasi dieci anni di battaglie, ritorna a fare ciò che ama.

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Cos’è per te la scalata?
L’ultima presa da cui moschettonare la catena. La soluzione imprevedibile di un blocco. Una nuvola di magnesite. Quel momento a metà in un lancio in cui stai volando senza toccare roccia, senza sentire la gravità. Un’imbragatura stracarica di sovraccarichi in piombo. Le dita che si arcuano su una presa intenibile. Una linea che non riuscirai mai a salire.

Cosa ti piacerebbe che pensasse un lettore del tuo libro dopo averlo finito?
Che non lo si poteva scrivere meglio. La tristezza perché è finito un viaggio. La voglia di rileggerlo. La voglia di staccarsi ancora da terra.

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Cosa mi consigli dato che sto per leggerlo?
E’ un libro denso, ma veloce. L’arrampicata è un tema secondario, ma il libro comunque parla di utopia, di guarigione, di resilienza, di sogni e coraggio. Io credo che sia un libro da arrampicatori, un libro da leggere, perché racconta di limiti frantumati, di speranze raggiunte, di istanti di vita che vanno vissuti come fossero gli ultimi.

Christian Roccati
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