Il telefono emette un piccolo suono: leggo il messaggio, è Fed, il mio caro amico. Mi scrive di oggi, la sua ultima salita, una cascata di ghiaccio, un piccolo sipario nel nulla. Un così breve “tweet” e così profonde emozioni.
Mi parla dei riti classici: il te, il gelo della mattina molto prima dell’alba, i ramponi, le viti… e la salita.
Lo ringrazio; mi comunica libertà assoluta congelata in uno stillicidio bianco.
Mi chiede, rispondo.
Noi siamo andati su roccia, anche se pioveva. In falesia, tra mille corde colorate, sorrisi, natura, frastuoni. Ripenso e scrivo.
Il cielo promette tempesta e noi scaliamo; ci sono davvero tante persone, ognuna per i suoi motivi, alla ricerca dei propri pensieri. Ho appena parlato con due amici: ho in mente montagne inviolate, pareti mai sfiorate da alcuna mano.
Scalo una serie di vie, una decina. Mi sposto sui tiri più duri, ma anche lì ci sono persone. Amen. Inizia a piovere, prima piano, poi smette, poi più forte, poi smette ancora. Il soffitto si fa nero e ricomincia, ora più forte. Il rumore dell’acqua si mischia con quello delle sacche fatte su al volo. Cinquanta persone che “scappano”.
Continuo a scalare… piove, rimango l’unico sulla parete.
Ancora un tiro, ancora un tiro. Salgo su un diedro, bello, elegante, ne sembra l’archetipo. Tasto ogni pietra, sempre, a parte una, quella, proprio quella. Si stacca un massetto grosso come un piccolo televisore e io cado.
Un’amica l’aveva predetto in sogno, mi chiedo “ma davvero?”
Volo. C’è troppa corda e ho una cengia spiovente sotto i piedi, la fune non mi proteggerà…
…frazioni di brandelli di frammenti di istanti.
Colpisco apposta la roccia per allontanarmi dalla parete, giro con la faccia al vuoto e urlo “pietreee”… Gli amici si chinano sotto un micro strapiombo. Riesco a fermarmi tenendomi con le mani al bordo, urto una caviglia che si storce anche se ne ho già attutito di molto l’impatto. La corda è ancora molla.
Mi butto in avanti e seguo con lo sguardo le ultime roccette che rotolano di sotto “Pietreee”.
Dieci secondi il tutto, forse, niente di più.
“State bene?” Tutti mi rassicurano.
Mi risiedo come posso sulla cengia e stringo forte la caviglia. Fa un male cane.
Distorsione più contusione, poveretta quante centinaia di migliaia te ne ho procurate da quando esisto.
Mi chiedono se io sia a posto; testo l’arto. L’articolazione è integra anche se si gonfia in un momento ed è bene che faccia solo metà dei movimenti: solo longitudinali senza extracarico, nessuna torsione, nessuna rotazione.
Mi urlano di scendere mentre son già ripartito. Li rassicuro. Qualcuno grida “non fare l’eroe” e io triste penso “ci risiamo”… è da quando son bimbo che mi feriscono così. Non sono un cuor di leone, ho paura di tutto, quando faccio qualcosa è perché me la sento, ho valutato, e se ho bisogno di aiuto, lo chiedo. Ora son semplicemente me stesso e questo è il momento più bello della giornata, non rovinatemelo. Lasciatemi stare. Ancora qualche grido, per paura e affetto, ma non ascolto più, non fatemi del male, ora sono libero, lasciatemi tale.
Salgo tra le rocce, solo, sentendo l’affetto del mio compagno di cordata attraverso la fune che ci lega, ora ancora più attenta di prima. Mi trasmette tensione, rammarico, amore fraterno. Piove e le gocce mi carezzano il volto, dolci, come le cure d’una sorella. Mi sembra di trovarmi in montagna, a casa mia, mi sento come se avessi le ali.
Il piede trema un poco: adrenalina o lesione? Testo la zampa che ricomincia a rispondere. Fa molto male, ma man mano che la muovo si vascolarizza e diminuisce leggermente il dolore. Un passo e incrocio, sempre più leggero. Raggiungo il punto in cui il massetto è caduto… sfioro la pietra, scherzandovi imbronciato con me stesso, ed elegante salgo ancora. Attacco il diedro strapiombante al suo centro: la linea è sinusoidale e molto bella, mi sembra che la roccia sia armoniosa e che si muova in risposta alle mie braccia, come se fossimo due ballerini di tango tra un ocho e un gancio. Il ritmo del mio respiro scandisce il numero dei passi che lenti sfiorano appena le prese.
Questa parete profuma delle montagne ai confini del mondo che scalerò.
Arrivo in cima. Manovro con la corda e mi calo, rilassato, tornando con la mente dalle anriche montagne alle pareti e alle rocche che ho intorno. Scendo con il mio filo di ragno verso i compagni; mi scuso per le pietre, loro si assicurano che io stia bene.
Poi facciamo i sacchi e procediamo, finalmente soli.
Il sentiero, dapprima orogenesi di latifoglie e poi artificio di laterizi, parla di milioni di passi di boscaioli, pastori, cavatori, fungaioli e scalatori. Scendiamo verso casette e antri, tra sorrisi e sensazioni, ricordando traversate e feste di montagna in questo meraviglioso tempo.
Un attimo di libertà, un centimetro più vicini alle prossime avventure, alle prossime esplorazioni.
Christian Roccati
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