Cari amici,
reduce da alcune conferenze e un periodo di lavoro davvero intenso, ho davvero voglia di sentirmi bene e, non potendo andare in montagna, in questa giornata piovosa di scadenze e impegni, ho deciso di intervistare il caro amico Marco Blatto, un grande appassionato con la Montagna dentro, un uomo speciale che la porta sempre con sé, la vive con arte e spiritualità.
Classe 1965, nato a Torino (anche se lui afferma con orgoglio di aver “aperto gli occhi a Courmayeur”!), vive a Cantoira in Val Grande di Lanzo. Lavora come mountain editor e giornalista in una quantità di ambiti che sarebbe davvero impossibile descrivere… qualsiasi elenco sembrerebbe sterile tanto è vulcanico il suo impegno.
Scrittore e alpinista con numerosissime aperture e altrettante salite free solo, su roccia e su ghiaccio, intellettuale impegnato e membro dei più importanti club e delle più stimate associazioni alpinistiche, sarebbe davvero difficile da descrivere… l’unico mezzo è incontrarlo su queste pagine virtuali!
Come hai cominciato ad andare in montagna?
Ai piedi del Monte Bianco mi era piuttosto facile anche solo immaginare di “andare in montagna”. A Courmayeur negli anni ‘60 e ’70, ho trascorso la mia infanzia tra le mura della gastronomia gestita da mio zio e lunghe passeggiate in Val Ferret e in Val Veny. In Val Ferret nel 1969 ho abbozzato le prime arrampicate sui massi presso Arpnouva. Parecchie guide alpine e alpinisti, tra cui anche Walter Bonatti, frequentavano il salotto di mio zio e di casa nostra. Ricordo in particolar modo Luigino Henry che mi prestò un binocolo per guardare meglio il Dente del Gigante che vedevo dalla finestra della mia camera. Il mio primo corso di alpinismo, però, lo feci nell’estate del 1979 con Cosimo Zappelli.
Cosa cerchi nella natura?
Un ritorno alle origini. Per me l’alpinismo, l’arrampicata o le altre attività affini che pratico sono state più che altro un pretesto per acquisire sempre una maggiore conoscenza dell’ambiente alpino. Fin dalle prime escursioni in età giovanile ho capito che l’aspetto sportivo, la “meta fisica”, la difficoltà e i tempi, m’interessava poco. Trovavo i miei amici, al contrario votati alla ricerca del sempre più difficile, piuttosto noiosi e limitati. Io, invece, arrivavo a casa e annotavo sul mio diario in modo ossessivo tutte le osservazioni di carattere geografico che avevo potuto ricavare. Ben presto però, a queste si aggiunsero quelle di natura emozionale e introspettiva. Iniziavo già in qualche modo a dare importanza al “viaggio” e assai poco alla “meta”.
Cosa significa il passaggio dal Nuovo Mattino alle Antiche Sere?
Più che un passaggio parlerei di un’inevitabile conseguenza. Sul “Nuovo Mattino” si sono espressi commentatori autorevoli. Ho trovato e loro osservazioni spesso inficiate dal personalismo o da come loro stessi avrebbero voluto che fosse stato il “Nuovo Mattino”. Qualcuno ne parla con un certo reducismo e nostalgia perché gli ricorda gli anni ribelli della gioventù, qualcun altro lo riduce a un fenomeno puramente subalpino, sostenendo che ben prima esperienze simili erano maturate in altri luoghi delle Alpi. Pochi però hanno indagato su quella che secondo me è un elemento interessante di quel fenomeno, forse a questo punto davvero esistito solamente nella testa di Motti: cioè il tentativo di estendere la “dimensione dello spirito” anche alle pareti senza vetta. Un vero e proprio archetipo di quello che io definisco “sentimento della meta”. Non conta, infatti, la meta come tale ma le sensazioni che si vivono durante il viaggio. Le “Antiche Sere” richiamano elementi “visionari” tipici della contemplazione, facendo ricorso al mito e producendo paesaggio attraverso l’evocazione. Una manifestazione romantica molto potente che svela quanto Motti fosse assai più attento alla dimensione “spirituale” dell’azione che non a certi punti fermi dell’alpinismo o della scalata. E’ per questo motivo che in Sea, teatro delle “Antiche Sere”, egli non avrà neppure bisogno di arrampicare. Le “Antiche Sere” chiariscono l’equivoco del “Nuovo Mattino” anche se in modo un po’ criptato agli occhi degli osservatori più superficiali.
Cosa significa avere la Montagna dentro?
La montagna è un elemento dallo spirito evocativo molto forte. Se ti ci rapporti con una mentalità sportiva, sarà sempre e solo un terreno di gioco, magari esteticamente bello ma un terreno di gioco. Se, invece, oltrepassi la soglia della percezione superficiale, diventa un paesaggio dell’anima, un luogo in cui perdersi in infinite giornate di contemplazione e visione. Allora, davvero, scalare diventa un fatto secondario.
Cos’è il senso della meta?
Parlerei di “sentimento della meta”. In parte l’ho già spiegato, ma in ogni caso è lo scoprire che attraverso un’attività come la scalata, intesa come mezzo, puoi compiere un viaggio alla ricerca di sensazioni uniche. La meta è solo un punto d’arrivo temporaneo che non deve essere investito di un valore eccessivamente simbolico. Una volta raggiunta la meta, infatti, il viaggio è terminato e con esso tutte le sensazioni che si sono potute ricavare. Non resta quindi che ripartire subito.
Quali sono i tuoi più grandi riconoscimenti? Di quale club fai parte?
Non so se siano grandi… forse uno dei riconoscimenti che ho sentito più mio è stato la vittoria del “Premio d’Alpinismo G. De Simoni” nel 2003. Non è solo un premio per l’attività esplorativa, ma anche per l’impegno culturale e la divulgazione scientifica. Faccio parte dell’Alpine Club britannico dal 2008 e dal 2012 sono stato ammesso nell’Alpine Climbing Group, che è un po’ la sezione d’élite del più antico club alpino del mondo. Nel 2014, poi, sono entrato nel Groupe de Haute Montagne francese.
Che tipo di alpinismo pratichi? Cosa vivi?
Ho sempre praticato un alpinismo “classico”. La maggior parte della mia attività negli ultimi 30’anni si è svolta nel Gruppo del Monte Bianco e nel Massiccio degli Ecrins, ripetendo gli itinerari che hanno fatto un po’ la storia dell’alpinismo occidentale. Contemporaneamente, fin dai primi anni ’90 ho iniziato ad accorgermi che nelle Alpi Graie Meridionali esistevano tantissime possibilità di aprire vie nuove in stile “classico”. L’alpinismo esplorativo è l’attività che mi ha regalato le emozioni più forti e al contempo mi ha offerto la possibilità di accrescere le mie conoscenze sulla montagna. Non mi sono mai dedicato all’allenamento sistematico per migliorare le mie capacità né tantomeno sono stato interessato a progettare salite nell’ordine dell’ “estremamente difficile”. Sarebbe stato così, anche se avessi avuto delle qualità tecniche e fisiche maggiori. Ho passato invece tre decenni ad accrescere la mia esperienza in montagna, cercando di migliorare le mie conoscenze in ogni campo e in ogni direzione.
Quali sono le tue più grandi realizzazioni?
Sai, per ogni alpinista una via ripetuta o aperta può essere “grande”. Io distinguo due categorie di alpinismo: quello estremo delle grandi difficoltà e delle “grandi montagne” e quello “classico” praticato lungo itinerari di buon livello, che però non finiranno mai sotto i riflettori. Il primo è appannaggio dei “forti” alpinisti l’altro dei “bravi” alpinisti. Io appartengo a questa seconda categoria che pratica l’alpinismo per diletto, dunque sono un “dilettante”. I “forti” a dire il vero sono pochi, anche se diversi colleghi si auto- inseriscono d’ufficio in questa categoria. Bisognerebbe avere un po’ più di umiltà. In ogni caso, tra le mie “grandi salite” mi viene in mente la direttissima al Pilastro sud della Punta Francesetti, dove per la prima volta abbiamo portato il settimo grado superiore in stile tradizionale a quella quota sulle Alpi Graie Meridionali, oppure la prima invernale lungo una via nuova della parete nord della Cima di Monfret. Quest’ultima una salita molto difficile dal punto di vista tecnico realizzata in condizioni durissime.
Quante vie hai aperto e di quale tipo?
Se intendi in alta montagna, ho aperto 32 vie tutte in stile tradizionale, su roccia, su ghiaccio e su misto. Per quanto riguarda le vie di arrampicata, invece, sinceramente credo di aver perso il conto…
Cos’è il TRAD?
Ti posso rispondere dicendo che sul “trad” sono già state fatte troppe conferenze chiarificatrici e che, a dire il vero, la cosa non mi appassiona più di tanto. Lascio la risposta ai “guru”, tali o presunti, che sicuramente possono entrare in particolarismi e sfaccettature. Per me l’arrampicata tradizionale è quella che rispetta al massimo la roccia nella sua integrità, quindi non prevede l’uso del trapano. Contenere l’uso del trapano o eliminarlo del tutto in alcune circostanze non potrà che far bene alla scalata e al modo di porsi innanzi alla roccia, alla difficoltà e ai propri limiti, sia in montagna che in “fondovalle”.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Ho in mente un paio di vie nuove in invernale sulle montagne di casa. Per fortuna alcuni angoli delle Alpi, proprio perché meno conosciuti, offrono ancora spazi per l’avventura con la “A” maiuscola. Chi l’ha detto che l’avventura si può vivere soltanto nei luoghi più remoti del mondo o sui massicci più blasonati? Sto vivendo inoltre un periodo in cui il mio alpinismo mi appaga in solitaria. Scalo spesso in free-solo e cerco di prepararmi ancora per qualche bella esperienza in questo stile. Lo faccio ampiamente al disotto delle mie reali possibilità perché m’interessa sentirmi bene e in sintonia con l’ambiente.
Parlaci del tuo amato vallone di Sea e delle relative manifestazioni
Il vallone per me è stato teatro di molte belle prime salite sulle pareti più alte, come nel Gruppo della Leitosa o sull’Albaron di Sea. Della Leitosa penso di poter dire che conosco ogni piega più nascosta. Sea è anche un luogo dove passeggiare semplicemente, scalare un po’ sui sassi del Massiet nei pomeriggi autunnali, oppure dove leggere qualche buon libro. Sono più di 30’anni che studio il vallone di Sea dal punto di vista geografico, storico e anche estetico-filosofico. Vi è una moltitudine di aspetti incredibili che la maggior parte degli avventori, scalatori compresi, ignorano del tutto o che passano inosservati. Ci va una certa sensibilità al paesaggio frutto anni di frequentazione per coglierli appieno. L’unicità del luogo risiede nella sua forza evocativa e non è un caso che qui abbia preso forma uno degli ultimi fenomeni di pensiero romantico del ‘900 legato alla montagna: le “Antiche Sere” appunto. Ecco perché bisogna preservare a ogni costo l’anima del paesaggio.
Parlaci della tua scuola di arrampicata
Forse intendi dire la società di arrampicata cui appartengo… La Società arrampicata sportiva palavela è nata a Torino con la Federazione arrampicata sportiva italiana nel 1987. La sede all’epoca era presso la celebre palestra indoor “Guido Rossa” del Palavela. Ecco perché dopo la sua demolizione, che ha comportato il trasferimento dell’attività in altra sede, la società ha mantenuto la dicitura “Palavela”. Ne faccio parte fin dalle origini e il mio è un legame affettivo ancorché sportivo. L’arrampicata a fine agonistico è per me uno sport dunque, come tecnico sportivo, m’impegno per insegnare al meglio i fondamentali delle tecniche di questa disciplina. Nei nostri corsi, suddivisi per fasce di età e obiettivi, ci concentriamo molto sul potenziamento del bagaglio motorio e sulla consapevolezza corporea. Non vedo alcuna contraddizione tra il fare l’istruttore di arrampicata sportiva e intendere la scalata in ambiente in modo “ideale”. Sono due mondi completamente separati che hanno in comune soltanto degli schemi motori.
Parlaci dei tuoi libri: quali sono le tue opere e di cosa trattano
Io amo la geografia e la storia, dunque le mie pubblicazioni dedicate all’outdoor contengono sempre dei paragrafi di approfondimento culturale. Sono delle guide geografiche a tutti gli effetti prima ancora di essere delle topo-guide. Mi occupo in particolar modo della promozione del territorio alpino e i nostri progetti editoriali sono mirati a favorire un turismo “lento” e “morbido”, con la riscoperta di luoghi piuttosto lontani dal modello del grande centro turistico estivo o invernale. Portiamo a termine i lavori spesso dopo uno studio assiduo di un’area e ogni ricerca ci arricchisce sempre notevolmente. La montagna è cultura e conoscenza.
Qual’è il tuo prossimo progetto?
Sto preparando una pubblicazione che racconta la Courmayeur degli anni ‘60 e ’70 attraverso i miei ricordi e che ha come palcoscenico privilegiato la gastronomia di famiglia che gestivamo in Strada Regionale. La “mia Courmayeur” fu luogo di tanti incontri con guide e alpinisti famosi, ma anche con artisti dello spettacolo, attori e “vip” clienti abituali della nostra bottega. Poi sto lavorando a un libro un po’ più autobiografico “I giorni dell’Alpe”, che è anche il titolo di una mia videoproiezione. Nessuna grande impresa, per carità, ma la montagna vista da me attraverso tante ascensioni e incontri inaspettati.
Quando e perché hai iniziato a rapportarti con l’editoria?
Ho iniziato a collaborare con la rivista “Alp” nel 1993 con il numero speciale “Alpmanacco”, per continuare fino al 2001 con varie monografie su “AlpWall” e con la pubblicazione di quattro titoli per la Collana le “Guide di Alp”. All’inizio del nuovo millennio è iniziata invece l’avventura con “Escursionista Editore”.
Parlaci del GISM
Sono stato ammesso nel Gism nel 1998 a Cervinia e ho subito maturato la sensazione di aver trovato casa per il mio modo d’intendere l’alpinismo. Il gruppo nacque a Torino nel 1929 per opporsi all’inquadramento del Cai e dell’alpinismo nello sport fascista e da allora ha mantenuto una sua equidistanza dalle altre associazioni “istituzionali”. Quando vi arrivai vent’anni fa, devo dire che il Gism si presentava come un cenacolo di letterati, artisti e studiosi, il cui legame primigenio con l’alpinismo si era perso un po’. Il presidente Spiro Dalla Porta Xydias però, incarnava al meglio l’antica anima del sodalizio e si spendeva in ogni occasione per far sentire la voce di un alpinismo inteso non solo come sport. Da allora sono diventato delegato della Valle d’Aosta e del Piemonte, consigliere nazionale e mi sono impegnato al meglio per riportare il gruppo tra le associazioni autorevoli in materia di alpinismo. Non amo le “patacche” ma quella del Gism è una di quelle che porto con maggiore orgoglio.
Recentemente c’è stata una perdita semplicemente “immensa”: raccontaci di Spiro
Spiro è stato non solo un grande interprete dell’alpinismo triestino del dopoguerra, un regista affermato e un grande uomo di cultura, ma anche una delle poche voci che si è levata in difesa della vera essenza dell’alpinismo: la gratuità. Se in questi trent’anni l’ideale ha trovato un suo spazio d’affermazione in un ambiente sempre più votato al grado, al record e alle sponsorizzazioni, lo si deve certamente alla battaglia di Spiro. Egli ha voluto che fondassi con lui all’interno del Gism la “Sezione Alpinisti Testimonial”. Ne fanno parte, tra gli altri: Cesare Maestri, Alessandro Gogna, Sergio De Infanti, Marino Babudri, Ariella Sain, Christian Roccati. Un’iniziativa importante per continuare a rafforzare la battaglia etica del Gism. Ho avuto la fortuna di formare con Spiro una cordata letteraria nella stesura del nostro libro “Del Sentimento della vetta e della meta”, due modi diversi d’intendere l’alpinismo uniti però da un unico elemento: il sentimento. Per me Spiro è stato un maestro di stile, di alpinismo e di etica. Una grandissima perdita, certo. Penso però che oggi possiamo ripartire dal suo grande insegnamento e far sì che il nostro modo d’intendere l’alpinismo abbia sempre una voce forte e chiara nell’ambiente della montagna.
Com’è la tua giornata tipica?
Non ho giornate tipiche perché con il lavoro che svolgo, possono essere molto diverse tra loro. Ti dico però qual è la mia giornata “tipo”. Sveglia piuttosto presto, colazione con latte, cereali e miele di montagna (che non deve mai mancare). Mi dedico quindi ai lavori editoriali o cartografici fino all’ora di pranzo, poi, salgo in sella alla mia mountain bike e pedalo fino al fondovalle per una breve scalata in solitaria nel vallone di Sea, o per qualche passaggio di bouldering. Ritornato a casa se non è troppo tardi, mi rimetto al lavoro. Non ceno mai troppo presto quindi faccio una sessione di allenamento a secco alla trave di un’oretta. Dopo cena se non ci sono urgenze lavorative carico la mia pipa Jeantet con un buon tabacco aromatico e mi dedico a un buon libro. Infine, se reggo ancora il sonno, verso mezzanotte metto un po’ di buona musica, navigo in rete e magari se ho l’ispirazione, scrivo qualcosa per il mio blog.
Cosa diresti a un ragazzo che si approccia alla montagna?
Oggi i ragazzi giovani bruciano le tappe, senza distinzione di sesso. Superano gradi estremi e a vent’anni diventano guide alpine senza necessariamente avere un trascorso alpinistico alle spalle o un solido retroterra culturale alpino. Le ragazze, specialmente se forti e belle, sono corteggiate dai media, finiscono sulle copertine delle riviste e indossano con disinvoltura abiti d’alta moda firmati cos’ come capi tecnici. Niente di male per carità, i tempi cambiano e bisogna accettarlo. E’ giusto che i giovani possano scegliere la loro strada come meglio credono. Sono certamente cambiati anche i punti di riferimento tecnico e “morale” rispetto a quando abbiamo iniziato noi. All’epoca, almeno in alpinismo, vi erano ancora i grandi “capiscuola” che davvero rappresentavano un esempio riconoscibile per tanti iniziandi. Io ho avuto la fortuna di frequentare Cosimo Zappelli e di averlo come primo “maestro tecnico”, ma anche “spiriituale”. Tanti altri personaggi da Motti a Grassi a Mellano, sono stati fondamentali per un approccio completo all’attività in montagna. Anche oggi penso sia indispensabile saper riconoscere i buoni maestri, non soltanto in senso tecnico, ma anche spirituale. Consiglio ai giovani di leggere molto, non trascurando i grandi classici della letteratura alpinistica e spaziando a testi di carattere scientifico e filosofico, perché una mente aperta e una solida cultura, anche in montagna, forniscono degli strumenti in più di un paio di mani che sanno tenere una tacca da cinque millimetri o un fisico che permette di demolire i record. Soprattutto è importante sapersi stupire sempre e guardare le montagne come fosse la prima volta.
Christian Roccati
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