Cari amici …posso chiamarvi così dopo tanti anni? Ho qualcosa per voi, anche oggi.
Se c’è una cosa che mi piace nelle persone, è la verità. Ci sono milioni di alpinisti, ognuno con il suo stile, il proprio modo di interpretare quell’arte che è l’andare in montagna, molti di essi davvero bravi in ciò che fanno. Ci sono persone che fanno molto rumore e si spingono oltre il limite …dell’audience. Ce ne sono altre che senza disturbare compiono imprese veramente uniche e non ne fanno quasi parola ai più.
Ci sono persone che dichiarano di fare ogni disciplina in montagna, ma alla fine scalano, che sia su misto, ghiaccio o roccia, si limitano a uno solo dei modi di muoversi in natura, cambiando semplicemente terreno. In nessuno dei due casi si parla di Matteo Rivadossi il Pota, classe ’70 di Nave, nel bresciano.
Per i più addetti ai lavori sto descrivendo semplicemente una leggenda, ma alla maggior parte degli appassionati, questo nome è quasi sconosciuto. Possibile? Stiamo parlando di uno dei più forti montagnardi al mondo! Ebbene si, è possibile. Nuovamente ripenso alle parole del grande Mauro Corona relative a un famoso festival …”siamo qui per vanità, se mi piaceva la montagna, andavo in montagna”.
Il Pota non lo si vedrà molte volte in tv e magari non lo si sentirà rilasciare non so quante interviste …ma forse nemmeno lo si incontrerà in montagna, perché dove osa lui, ben pochi si sono spinti.
Da quando vai in montagna e come hai iniziato?
Da bambino sui sentieri e sulle ferrate con mio padre, poi verso gli 11 anni i primi pericolosi esperimenti speleo e arrampicatori… Ufficialmente inizio a scalare dal 1985 quando, appena quindicenne, mio padre mi regalò un corso privato con una guida alpina: due illuminanti settimane di roccia e ghiaccio che mi hanno galvanizzato.
Cosa significa che sei un atleta poliedrico o multilaterale?
Da una curiosità morbosa per le grotte, la speleologia è divenuta presto una scelta di vita. In essa mi sono realizzato pienamente raccogliendo risultati nelle grotte più profonde ed estese.
Contemporaneamente ho sempre scalato cercando di esplorare le pareti dietro casa, pareti o vette inviolate o semplicemente i miei limiti; mi sono trovato soprattutto ad aprire nuove vie su roccia e su ghiaccio. Tra i pochi ho vissuto “la bolla” dell’artificiale estrema e mi sono riscoperto con velleità atletiche nel dry-tooling.
Più tardi rispetto a grotte e montagne arriva la malattia del torrentismo che, fino al 1995, avevo praticato sporadicamente per curiosità ed esigenze di soccorso. Stregandomi. Fino a cercavi i limiti sportivi e, ancora una volta, grandi canyon inesplorati.
Qual’é la tua disciplina di punta e quale la miglior prestazione?
Mi sono divertito a spremermi al massimo in ogni ambito, ma a oggi, dopo 37 anni di attività speleologica frenetica e totalizzante, vissuta soprattutto in Italia, Slovenia, Messico e Filippine, resto uno speleologo! Posso raccontare di aver passato varie volte i simbolici “meno mille” metri in esplorazione (tra cui BC4-Malaboka, seconda traversata della terra con 1400 m di dislivello nel 2005), che ho sceso per primo il pozzo più profondo del mondo (Vertiglavica, p.643 in Slovenia nel 1996) o che ho fatto la solitaria alla Spluga della Preta, armo e disarmo (fino al fondo di Sala Nera in 21 ore con i cordini da 5mm nel 2001). La soddisfazione più grande? Quella di aver illuminato per primo quasi 300 km di buio!
Cosa cerchi in ambiente naturale?
La ricerca dell’intimità tra pietra e acqua ha sempre accompagnato la mia avventura: io non ho fatto altro che seguire gli spazi e le forme. Granito liscio come calcare a buchi, al buio pesto o bruciato dal sole, sui flussi ghiacciati, nel silenzio assoluto o nel fragore assordante, ho sempre cercato di scovare quella linea elegante già preparata dalla natura.
A questo punto grotte, gole o pareti, sono state un dettaglio.
Sei anche un Movie maker?
A partire dal 2000, contagiato dall’amico regista Marco Preti che ha firmato l’onirica fiction della nostra salita al Sotano de las Golondrinas (la prima big wall sotterranea al mondo, in Messico), ho girato tanti filmati tra cui: El Chorreadero (fiction in uno dei canyon sotterranei più belli, Chiapas, 2000), Mactingol 2002 (premiato resoconto di una delle innumerevoli spedizioni speleologiche in Filippine), Kalambo (sulla prima discesa dell’omonimo fiume dopo un cascata da 230 m fino al lago Tanganika, Zambia-Tanzania, 2003), Jinbar Falls (racconto della prima discesa dell’incredibile canyon caratterizzato da una cascata da 500 m, Etiopia, 2013).
Aver girato Krubera nel 2005, durante la prima ripetizione della grotta più profonda del mondo (all’epoca -2080 m), è stata un’impresa nell’impresa. Sia per l’attrezzatura di quegli anni (una piccola camera mini DV senza illuminazione se non le nostre lampade a carburo), sia perché non ci credevano nemmeno i miei due compagni! “Ma lascia perdere, tanto non verrà niente!”, ripetevano Giacomo e Rok spostando i 3 sacchi a testa in condizioni limite. Ma io, testardo, non ho mai mollato centellinando le 4 batterie… Poi le poche immagini, montate bene, sono riuscite a raccontare davvero l’emozione di quella grande avventura e loro si sono ricreduti ringraziandomi. Furono per anni le prime e uniche immagini di quei luoghi lontanissimi da tutto. Dalla superficie come dalla nostra idea di speleologia. Un documento unico.
Che cos’è Odissea Naturavventura?
Odissea Naturavventura è un’associazione culturale per le esplorazioni geografiche fondata nel 1999 assieme a degli amici. La prima ed unica ad occuparsi di spelologia, alpinismo e torrentismo. Sotto la sua egida nascono tutte le nostre spedizioni, le iniziative didattiche e i documentari.
Cosa ci puoi raccontare del tuo D14?
Quando Jeff Merçier liberò Low G Man nel 2014, esultai per il primo D14 in territorio italiano e perché l’avevo attrezzato io: 45 metri di via per 25 di soffitto orizzontale! E ovviamente l’idea di provarci non mi sfiorò nemmeno. Dopo di lui solo l’inglese Tom Ballard, sempre nel rigoroso stile DTS, cioè senza incroci di gambe sulle braccia. Due anni fa feci i miei primi giri che mi costarono un’operazione ad una spalla, l’anno scorso le infiltrazioni all’altra. A inizio 2018 però ci provo davvero, sistematicamente. E mese dopo mese, ad aprile arriva il giro giusto.
La prima ripetizione italiana in stile DTS: la mia massima prestazione sportiva a 48 anni e 85 kg!”
Perché non hai usato la tecnica Yaniro?
Perché non lo ritengo uno stile pulito. Incrociando le gambe sulle braccia non si riposa di certo, ma si riesce a scaricare tanto. Soprattutto ci si può permettere di passare da una piccozza all’altra senza pensare ai piedi, che non è poco!
Ben diverso è dover cercare sempre degli appoggi per scaricare limitando le sospensioni dispendiose spesso inevitabili sui soffitti orizzontali. Poi ognuno può scegliere lo stile che più gli si aggrada, ma sarebbe più etico e corretto riferirsi almeno a due scale di difficoltà diverse.
Se dicessi “scalare una cascata di ghiaccio in una grotta”… di cosa mi parleresti?
Ovviamente di quel mostro di Brezno Pod Velbom! Nel 2016 sul versante sloveno del monte Kanin con Luca Vallata e Andrea Tocchini, scalando una lingua ghiacciata all’interno di uno dei pozzi carsici più profondi della terra, ho realizzato una prima eccezionale: la prima cascata di ghiaccio multipich mai scalata sottoterra! Io che ho sempre cercato il trait-d’union ideale tra le diverse specialità sono letteralmente impazzito! 380 metri di ghiaccio difficile e verticale, una delle cascate più belle delle alpi e per di più nascosta in una grotta!
Hai aperto vie anche sulle pareti di roccia? A quale sei più legato?
Rispetto alle varie ripetizioni sparse per tutte le Alpi, diciamo che ho aperto tantissimo: una cinquantina di vie lunghe soprattutto nel gruppo dell’Adamello.
Le placche granitiche della Val Salarno, salite con il piantaspit in mano ed i verticalissimi scudi della Val Daone, sempre dal basso ma con il trapano, sono stati i miei due terreni di gioco dove ho cercato di rispettare l’etica delle precedenti aperture aggiungendo divertimento e difficoltà. Una salita di cui vado fiero è Gotica (Cornetto di Salarno) aperta nel 2011: 53 spit tutti messi a mano (di cui 23 alle soste…) per 700 metri di sviluppo e difficoltà fino all’VIII grado superiore. Giusto per dissuadere gli amanti del trapano facile…
Parlando di artificiale estrema, che è stata un’altra mia parentesi profonda, ricorderei Morange allo Scoglio di Boazzo (Val Daone) nel 1999: il primo A5 italiano ancora oggi irripetuto.
Se parliamo di canyoning potrei citare il tuo celeberrimo salto in Val Bianca: ce ne puoi parlare? (Salto dalla cima di una cascata di 94 m centrando dopo 32 m di volo una pozza pensile sospesa nel vuoto n.d.a.)
Nella mia visione di torrentismo sportivo i tuffi non rappresentano un vezzo bensì una potente tecnica di progressione che permette essere veloci evitando zone turbolente e calate difficili. Saltare da 30 metri è l’estremizzazione di questo concetto assurgendo a esplorazione personale. Che ovviamente richiede automatismi e una tecnica propria, anche se questa farebbe ridere qualsiasi tuffatore professionista…
Sul volo da 32 metri della Val Bianca, che vidi per la prima volta in quell’occasione, be’, posso dire che saltai male, non calcolando che la soglia uscisse così tanto. Con il risultato di sfiorarla entrando leggermente sul fianco. Il peggiore della decina di tuffi che ho effettuato intorno ai 30 metri di altezza ma ormai quello più famoso! Che fosse una pazzia lo capii dal silenzio di una dozzina di compagni di discesa presenti…
E per quanto riguarda il tuo concatenemento solitario tra il Bares, i 3 Bodengo, il Cervio ed il Cormor, ci racconti quell’esperienza?
Un viaggione davvero quello che mi sono regalato egoisticamente nell’autunno 2017! In sole 6 ore e 22 ho potuto collegare fisicamente ben quattro tra i più belli e impegnativi canyon dell’Alto Lario – Val Chiavenna –Valtellina, una prova a tratti divertente, a tratti durissima ma sempre emozionante.
E se cercavo il tempo assoluto non avrei certo scelto di farlo a metà ottobre con il freddo e le giornate corte. Avevo solo voglia di spremermi. Grazie all’amico Vincenzo Valtulini che mi ha supportato. O meglio sopportato!
Ricordo un video “naturapaura” che partiva con Marylin Manson e finiva sulle note di “Io Manifesto”: come nacque? Cosa voleva rappresentare?
Era il 2006, Per me ed i miei compagni era una maniera ironica di presentare la nostra maniera di andare per canyon da anni, veloci e leggeri. Un torrentismo diverso, sportivo e moderno, sbattuto in faccia a un pubblico che pareva irrigidito da una visione accademica nella quale tutto sembrava ridotto a mera tecnica di calata in corda.
Irriverenti e goliardici, noi che ci eravamo costituiti come “ceffi”, facemmo scalpore ma anche tantissimi proseliti. E in largo anticipo sul freestyle e sulle Go-Pro…
Hai dichiarato: «l’obiettivo è l’esplorazione intesa come attività di ricerca e quindi documentazione, poco importa se fuori o dentro le montagne. Il fine è conoscere e far conoscere, soprattutto per rispettare e far rispettare». Cosa significa essere un esploratore?
Esplorare una linea ideale su una parete è arte. Esplorare una grande gola ci riporta ai tempi dei pionieri regalando attimi di gioiosa progressione. Esplorare i propri limiti è cimento, ancor prima curiosità e passione.
Esplorare invece dei luoghi fisici come i vuoti speleologici è esplorazione per antonomasia ma questa fortuna richiede abnegazione e tempo, ad esempio per la documentazione topografica.
Chi esplora ha per primo l’obbligo morale di sdebitarsi con i luoghi che l’hanno accolto difendendone la fragilità.
Ti alleni per le tue esperienze?
Non sono mai riuscito a programmare un allenamento metodico. Né da ragazzo quando correvo a piedi o con il trial a buon livello, tantomeno più tardi, quando avrei magari guadagnato qualche grado in arrampicata.
La mia fortuna è sempre stata quella di essere sorretto da un buon telaio (dicono gli amici) e soprattutto di praticare da sempre delle discipline complementari: già quindicenne scendevo dalla moto ed avevo le dita, le braccia e l’equilibrio per scalare; vivendo di rendita andavo in grotta in maniera ossessiva e quindi mi trovavo automaticamente bene anche in torrente. Poi un po’ di fiato l’ho sempre mantenuto, almeno a periodi.
Alimentazione sana 5 giorni su 7 ma dieta mai, anzi! Da buona forchetta che non ha mai rinunciato a scaraffare, ho però sempre curato l’integrazione. Anche solo per curiosità.
Gli unici allenamenti veri, almeno per continuità, li ho seguiti dai 35 anni in poi per le gare e le vie più difficili di dry-tooling ma mai a secco. Ho sempre scalato per scalare. Spesso rimettendoci del tempo e qualche infortunio pur di non sprecare nemmeno un istante in palestra…
Cosa diresti a un ragazzo che si approccia alla montagna?
Di divertirsi e di emozionarsi. Di crederci e soprattutto di ascoltarsi. Di non puntare in alto nemmeno se il gioco diventerà poi una scelta di vita, senza che sia la propria curiosità a farlo.
Di appiccicarsi a dei bravi maestri e poi in caso di superarli. Loro, le difficoltà ed i confini dei luoghi conosciuti. Buon viaggio!
Christian Roccati
SITO – Follow me on FACEBOOK