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15 Aprile 2022

Climbing · Vertical · Alpi Orientali · Aree Montane · Italia · Veneto

Lucio Bonaldo. Dall’ebbrezza dell’arrampicata al sentimento per la vita

Lucio Bonaldo durante l’intervista realizzata a casa sua. Foto Vittorino Mason

Contributo di Vittorino Mason

«El xe forte, ma mato» mi disse un giorno suo cugino in dialetto veneto.
«Ma perché dici che è matto?»
«Secondo te è normale uno che parte da casa in bicicletta e si fa quindici chilometri per andare a prendere l’acqua o la legna in montagna? E poi, non lavora, pensa solo ad arrampicare…» aggiunse come per dare forza alla sua asserzione.
“Ecco il solito stereotipo!” pensai fra me dissentendo in silenzio e cercando di non mostragli l’ammirazione che avevo per questo “matto” che ancora non conoscevo.
Mentre lui si alzava da dietro la scrivania per farmi capire che aveva altre cose da fare e che il mio tempo era scaduto, continuando col pensiero mi dissi: “È proprio vero: non appena qualcuno fa qualcosa di diverso dalla massa viene considerato un matto. Ma meglio essere un folle libero che un savio prigioniero di sé stesso!”. Lui, il cugino del “matto”, questo però non lo sentì.
Eravamo entrati in discorso perché avevo sentito parlare di Lucio e questo nome mi intrigava, mi giungeva diverso da altri. Ero interessato perché allora organizzavo una rassegna dedicata alla montagna e, invitando alpinisti, cercavo sempre di proporre persone e argomenti interessanti, diversi e lontani dal solito cliché del superamento dei limiti: gradi di difficoltà e cime altissime e difficili da salire.
Proprio perché strano, perché originale, questo Lucio, di cui poco si sapeva e conoscevo, avrei voluto invitarlo nella stagione successiva. Riuscii ad avere un contatto e a telefonargli. Alla mia proposta lui subito disse che si poteva fare, ma prima dovevo passare per casa sua, vedere com’ero fatto, capire chi ero e cosa avrei voluto che lui proponesse. “Va bene gli dissi, passerò” il tempo invece passò via me; non lo incontrai più e per stanchezza poi misi fine alla rassegna.

Verdon,1984: Lucio Bonaldo mostra le mani consumate dopo una lunga via. Foto arch. Lucio Bonaldo

Falesia di Valle di Santa Felicita,1980: Lucio Bonaldo impegnato in un tetto nel suo primo 6c+. Foto arch. Lucio Bonaldo

Il caso volle che Elio, mio medico e grande amico, un giorno in ambulatorio mi raccontasse che negli anni ’70, quando aveva quattordici anni, nella palestra di roccia di Santa Felicita aveva visto un ragazzo dal fisico statuario che arrampicava slegato sul 6a/6b, quasi fosse un ginnasta sulla pedana del corpo libero. “Fluttuava nell’aria”… Il ragazzo aveva un’armonia e un’eleganza che prima di allora Elio non aveva mai riscontrato in nessun arrampicatore e non vide mai più neanche dopo.
Sbalordito da quella visione Elio stette lì ad ammirarlo in silenzio per un tempo indefinito e quando lui scese non trovò il coraggio per andarlo a conoscere. Non lo rivide più, ma portò sempre con sé il desiderio di rincontralo. A distanza di molti anni, ritrovata la passione per l’arrampicata, il destino volle che un giorno, mentre stava percorrendo il sentiero che conduce alla palestra di Santa Felicita, lo rincontrasse e, seppur cambiato nei lineamenti, lo riconoscesse.
«Scusa, io ti ho visto arrampicare quarant’anni fa. Né allora né dopo ho mai più visto qualcuno arrampicare come te. Quella volta avrei voluto chiederti se eri disposto ad insegnarmi ad arrampicare, ma non ho avuto il coraggio, te lo chiedo ora» disse Elio.
Lui, con una smorfia di sorriso, rispose: «Chiamami nei prossimi giorni che vediamo di trovarci».

Elio e Lucio sono diventati amici. Si allenano assieme e non passa giorno che Elio non mi parli di questo guru-climber, della sua coerenza, della sua sensibilità, della sua spiritualità, della sua filosofia di vita, di come arrampica, di come risulta un uomo libero, fuori da qualsiasi schema e per questo, considerato matto!

Me ne ha parlato così tanto che, a distanza di molti anni, ho voluto anch’io conoscere di persona Lucio Bonaldo, emblema dell’arrampicata in Veneto. Dovevo farlo due anni fa, ma poi, non per colpa del Covid, arrivo adesso, un sabato di febbraio. Dopo due platani, a sinistra, è casa sua: a Cittadella. Suono, mi viene ad aprire un uomo col berretto in testa, fisico asciutto e snodato, le mani forti e nodose come radici di un albero, lo sguardo profondo di chi fa spesso introspezione.
Entriamo e mi fa accomodare nella piccola cucina dove sua madre inferma, che lui assiste da anni con amorevole cura è lì, vicina alla finestra, seduta sulla poltrona.
«Possiamo parlare qui?» chiedo un po’ imbarazzato.
«Sì, io non ho nulla da nascondere» mi dice Lucio con una calma disarmante.
«Bene, allora possiamo cominciare…»

L’intervista

La via Manolo al Dente del Rifugio (Pale di San Martino) tentativo e poi salita nel 2006 con Daniele Pontarolo. Foto arch.Lucio Bonaldo

1980 Torre Trieste. Da sx Lucio con la compagna di cordata Annalisa e due forti arrampicatori friulani dopo aver salito le vie Carlesso e Cassin in due giorni bivaccando in cengia. Foto arch.Lucio Bonaldo

1980, Torre d’Alleghe: Lucio (a sx) una settimana prima di partire per il servizio di leva con l’amico Roberto dopo aver salito in libera (forse la prima ripetizione) la Bellinzier 6b. Foto arch.Lucio Bonaldo

Come sei arrivato alle pareti di roccia?
Arrampicare per me è stato istintivo fin da piccolo. Mi veniva spontaneo salire in alto, arrampicarmi sugli alberi, specialmente abeti. Poi, alle medie, un compagno che aveva due amici più grandi e già avvezzi a scalare in falesia, una domenica mi invitò ad andare alla palestra di Santa Felicita dove feci le mie prime due vie di 3°; avrei voluto salire anche su gradi più impegnativi, ma non ci fu la possibilità. La settimana dopo mi feci accompagnare da mio padre, che nel frattempo mi aveva comperato una corda, e salii in libera lo Spigolo del Cristo, una via di IV. Quando stavo per compiere sedici anni lui volle iscrivermi a un corso roccia organizzato dalla locale sezione del Cai e da allora non ho più smesso di arrampicare.

Montagna solo come arrampicata?
Sì, la montagna l’ho vista sempre come arrampicata, anche se non disdegno camminare. Da giovane con il Cai ho fatto diverse escursioni, ma era scalare che mi piaceva. Così, con gli amici del primo corso roccia e con altri conosciuti in palestra, cominciai ad uscire anche in ambiente, impratichirmi delle manovre di corda e a ripetere vie di IV e V, soprattutto sulle Pale di San Martino. È stato così fino ai diciotto anni, poi, grazie alla patente di guida e all’auto, ho cominciato a staccarmi dal Cai e pensare in autonomia.

E le tue prime scarpette d’arrampicata?
Nel 1978, al ritorno dalla prima uscita della stagione alle Pale di San Martino, mi fermai in un negozio di articoli sportivi e comperai un paio di Galibier a trentatremila lire. Grazie anche a queste cominciai ad esplorare le mie capacità arrampicatorie.

Dove e con chi?
Soprattutto nelle Dolomiti e con diversi amici conosciuti in Valle Santa Felicita. Ma è stato con Pietro Salvestro “Big Jim” che ho percorso le mie prime vie di sesto grado. Avevo vent’anni ero entusiasta e ambizioso come tutti i giovani e per me iniziava una nuova vita che mi faceva dimenticare il lavoro quotidiano in fabbrica.

Ti alleni quasi sempre nella palestra di roccia in valle Santa Felicita: per comodità?
Sì, per me che dà più di vent’anni mi muovo in bicicletta è la più vicina, ma è anche una delle palestre più versatili che ci siano in zona. Mi dà la possibilità di andarci quando voglio, senza dover cercare per forza un compagno e così, quando gli impegni con mia madre me lo permettono, da qualche tempo solo una volta alla settimana, ci vado. Spesso arrampico slegato, ma se ho voglia di fare dei tiri impegnativi, trovo sempre qualcuno che mi assicura.

Ma nella tua vita c’è stato e c’è anche la palestra di Lumignano.
Ah, sì, è la più bella palestra della mia zona e non posso dimenticare le vie che ho liberato: “Sogni d’oro” e “Arco d’oro, 7c”. Nel 1984 Lumignano mi è servita per sviluppare ancora di più l’arte dell’arrampicata. Lì le vie sono più continue, sostenute, impegnative. Ricordo ancora la mia prima ripetizione di “Mago della propoli” aperta da Manolo dove a causa di un piccolo appiglio levigato, il passaggio chiave risultò più difficile di quasi un grado rispetto a quanto dichiarato dall’autore.

 

Lucio in spaccata sulla via Manolo al Piccolo Dain di Pietramurata. Foto arch.Lucio Bonaldo
Hai sempre arrampicato senza casco e con un imbrago vecchio, ma alla sicurezza non ci pensi?

Preferisco sempre essere libero mentalmente per percepire meglio ciò che mi sta attorno e ciò che sto facendo. Secondo me, se uno è in armonia con la natura e riesce a percepirla bene, non deve mai temere. Con il casco non mi sentirei più protetto e mi disturba il fatto di avere qualcosa in testa. Voglio comunicare con la natura e per farlo devo sentirla e farla entrare nella mia pelle. Chi invece non ha questo rapporto con la natura, è meglio che usi le protezioni. Per quanto riguarda il mio vecchio ed usurato imbrago, io lo tengo fin tanto che con mi sento sicuro e a mio agio, poi, se devo andare a ripetere qualche via nelle Dolomiti, ne uso un altro che è intatto.

Nel corso degli anni come hai vissuto l’avvento delle nuove attrezzature per l’alpinismo? Te ne sei servito o sei rimasto fedele a quelle obsolete del passato?
È sempre una questione di misura: le persone solitamente optano per gli estremi. O rimangono fermi nel passato, ancorati a vecchie ideologie, oppure sono sempre proiettati al futuro, agli articoli dell’ultima moda. Bisogna seguire la via di mezzo! La più difficile. Cercare l’essenziale e nel campo dell’alpinismo, usare pochi mezzi, quelli che servono davvero. In montagna io sono sempre andato leggero, con pochissimo materiale, perché si deve confidare di più nelle proprie capacità e perché la sobrietà è una preziosa compagna.

Hai dedicato buona parte della tua vita all’arrampicata: perché eri libero da impegni di lavoro?
No, ci sono stati anni in cui ho lavorato molto e altri nei quali ho avuto più tempo a disposizione per arrampicare. Per dieci anni ho lavorato in fabbrica e arrampicato nel tempo libero, soprattutto la sera, ma in questo lasso di tempo mi sono preso anche delle pause per andare ad arrampicare all’estero. Poi, a 26 anni, ho lasciato il lavoro e mi sono dedicato alla Macrobiotica e ho cominciato a farmi il pane nel forno a legna di casa. In quel periodo, quando andavo ad arrampicare a Lumignano, avevo sempre con me una grande cesta di pane integrale-biologico che vendevo agli amici arrampicatori. Comunque non dedicavo mai più di tre giorni alla settimana per l’arrampicata e adesso me ne bastano due per mantenermi in forma.

Per arrampicare bene cos’è più importante: lo stato mentale, la preparazione fisica o la combinazione di più elementi?
La base per arrampicare bene è la calma, ma è difficile da conseguire in un mondo come questo. Sai, se uno è calmo sa sempre cosa deve fare e con poco fa molto. Uno calmo è sciolto nei movimenti, sa dove mettere mani e piedi, psicologicamente è più libero, fa le cose con semplicità e senza quella paura provocata dall’agitazione. Se riesci a comprendere cosa sia la calma, tutto il resto viene da sé; la preparazione fisica e mentale è condizionata da questo stato dell’essere. Se la ottieni, il tuo corpo e la tua mente esprimono ordine e misura, in una parola: equilibrio e pace interiore. Ma le persone comuni sono sempre agitate perché sono egoiste e vogliono troppo! Volere troppo è il nostro peggiore male.

In falesia arrampichi spesso in costume e a dorso nudo: per sentirti più libero?
Sì. Non è esibizionismo, me ne guardo… A contatto con l’aria la pelle respira meglio e il calore del sole mi dà energia. Qualcuno può prendermi per pazzo, ma lo è chi è sempre troppo vestito. Bisogna comunicare con l’aria sia con la pelle che con il respiro: ne abbiamo davvero bisogno per stare bene. L’aria è il nostro primo cibo, ma non sempre ne siamo consapevoli. E c’è una bella differenza tra respirare e saper respirare. Respirare bene significa essere aperti, la mente si apre e arriva la calma.

1984: ogni tanto Lucio si dilettava in salite a piedi scalzi. Qui è in azione sul monotiro Buffet Freud 6b+ nella bella falesia di Boux in Francia. Foto arch. Lucio Bonaldo

 

1984: primo 7b di Lucio nella falesia di Buoux, Francia. Foto arch. Lucio Bonaldo

Cosa significa essere libero?
Un uomo è libero quando riesce a raggiungere l’unione spirituale col Tutto e l’armonia si ottiene quando ci si apre, non quando ci si chiude alle altre forme di vita. L’ascolto, l’attenzione e la consapevolezza sono elementi fondamentali per conseguire questo stato di benessere che passa prima per i sensi, ma poi deve per forza di cose coinvolgere la coscienza e l’anima che sono la parte più interiore e profonda di ogni individuo.

D’inverno non arrampichi e vai in letargo come gli orsi.
Devi sapere che d’inverno ci sono meno ore di luce e l’energia che abbiamo a disposizione è più bassa, per cui, se vuoi praticare un’attività impegnativa come quando disponi di tutta l’energia e la luce che ad esempio puoi avere in estate, vai contro natura ed è controproducente. Inoltre si dovrebbe permettere al nostro corpo di rigenerarsi dandogli un tempo di riposo, un po’ come la terra dei campi. Tutta la natura lo fa, perché non dovremo farlo anche noi?
Così nella stagione fredda riduco tutto all’essenziale mettendo a tacere l’ambizione del fare del corpo e la mente, e attendo la primavera con rinnovato entusiasmo.

Tu fai parte della generazione di forti arrampicatori degli anni ’70; gente come Manolo, Lorenzo Massarotto, Pier Verri, Umberto Marampon, solo per citarne alcuni. Che periodo è stato quello in cui in parete si vedevano anche le “formiche rosse”?
In quegli anni ero così impegnato col mio percorso di ricerca e “sviluppo” che non guardavo a ciò che facevano gli altri in montagna e nella vita di tutti i giorni. Pur sapendo qualcosa di alpinisti impegnati, io ero distaccato dalla politica e pensavo solo ad arrampicare e fare del mio meglio.

Civetta 1979, sul Diedro Philipp-Flamm con Piero Salvestro. Foto arch. Lucio Bonaldo

C’è una via che hai percorso e che ti ha lasciato un ricordo indelebile?
Per risponderti devo fare una premessa: c’è un Lucio del prima e un Lucio del dopo. Un Lucio ambizioso che è “morto” a 26 anni inseguendo, come molti, i sogni e un Lucio rinato ed evoluto del dopo e dell’adesso che ha trovato l’equilibrio interiore.
Per cui il Lucio ambizioso ricorda vie come il Diedro Philipp-Flamm a Punta Tissi, la prima ripetizione in libera (italiana) della Carlesso alla Torre di Valgrande o la prima in libera della Bellenzier alla Torre d’Alleghe. Mentre il Lucio evoluto trova che non ci sia niente di speciale da ricordare, ma che tutto è bello e importante uguale. La via di per sé non mi attrae più, ciò che conta è il mio rapporto con la montagna.

E un compagno?
Ricordo tutti quelli con i quali ho arrampicato; ognuno aveva qualcosa di buono, ma le persone migliori, quelle che ti fanno sentire e stare bene, sono quelle più aperte e calme, e con queste doti ne ho conosciuto pochi.

Hai avuto un maestro, un arrampicatore di riferimento?
Nessuno in particolare, ma ho imparato da molti: Alberto Campanile o Michele Guerrini, per stare in zona. Antoine Le Menestrel mi impressionava per le sue capacità motorie, Alain Ghersen per la forza, gli arrampicatori francesi, quelli della generazione di Patrick Edlinger, hanno sicuramente fatto scuola da un punto di vista tecnico, ma da quello umano hanno fallito perché troppo ambiziosi.

Val di Mello: via Nuova Dimensione sul Trapezio d’Argento. Foto arch. Lucio Bonaldo

Dalle difficili vie in Val di Mello alle pareti del Verdon (uno dei primi in Italia ad avvicinarsi), dalle ripetizioni (anche in libera) di vie molto impegnative nelle Dolomiti, a El Capitan (The Nose), passando dal free-climbing, primo grande amore, all’arrampicata sportiva: ma cos’è per te l’arrampicata?
Sai, quando alle medie praticavo l’atletica leggera (lancio del peso e salto in alto), non avrei mai immaginato che un giorno avrei scalato le montagne, ma essendo di natura molto sciolto e agile, l’arrampicata è stata ed è la mia via. Se la pratichi bene ti dà tutto: sia da un punto di vista fisico, sia da quello mentale, perchè è un’attività forte. Comunque sia è anche una passione umana che bisogna comprendere. Tramite l’arrampicata tu impari a conoscerti e quello che a prima vista può sembrare solo un gesto fisico-atletico, si tramuta in un esercizio spirituale.

La Val di Mello cosa ha significato per te?
La bellezza della natura, un paradiso con un’armonia incredibile. Vorrei che tutti potessero ammirarla almeno una volta nella vita. Io ci sono stato una quindicina di volte, ho arrampicato molto in Val di Mello, ma è stata sempre la natura a conquistarmi, le pareti venivano sempre dopo. Pensa che questa valle ha uno sviluppo verticale davvero straordinario: si parte da mille metri e si arriva ai 3678 del Monte Disgrazia: vivere la dimensione naturale arrampicando è davvero il massimo che si possa chiedere.

Poi c’è stato anche il Verdon…
Sì, la prima volta ci sono stato nel 1981, ma il ricordo più bello non sono state le vie, ma il sole e il profumo di lavanda che il vento mi portava fino alle narici mentre ero appeso con una mano alle pareti. In Verdon si percepisce proprio l’energia della terra e un senso del vuoto e della profondità unici. Su quelle pareti, alte mille metri, si vive una libertà aerea più intensa delle Dolomiti. Proprio per questo motivo ci sono stato una ventina di volte salendo tra le altre, “Sale Temps pour le caves, 7c/8a” un bellissimo monotiro di grande soddisfazione, “Surveiller et punir, 7a”, “Demon, 7a+” e “Caca boudin, 7°”. Il calcare del Verdon secondo me è il più bello che ci sia. Le rocce sono sculture realizzate dagli agenti atmosferici.

Verdon: Triomphe d’Eros, uno dei più belli 6c. Foto arch. Lucio Bonaldo

Verdon: Mort a Venise, 6c. Foto arch. Lucio Bonaldo

Verdon: un monotiro duro di 7a+. Foto arch.Lucio Bonaldo

Una bella via di 5.10 sulla Redgarden in cordata con Manrico Dell’Agnola. Foto arch. Lucio Bonaldo

Eldorado, Wind Tower sulla via King’s X 5.10+ con Manrico Dell’Agnola. Foto arch. Lucio Bonaldo

E l’esperienza del Nose?
Nel 1982 mi presi tre mesi di aspettativa e convinsi Manrico Dell’Agnola a venire con me allo Yosemite National Park. Avevo ventitré anni e quella fu proprio un’avventura! Prima siamo stati al Colorado Canyon poi siamo andati ad arrampicare allo Yosemite e quando Manrico è tornato a casa io sono ritornato ancora in Colorado ad arrampicare con due americani. Allo Yosemite abbiamo ripetuto tre vie: The Nose, la Robbins all’Half Dome e la Middle Cathedral Rock. Devo dire che abbiamo avuto delle difficoltà con il granito e l’arrampicata in fessura: ci mancava quel tipo di esperienza, io ero più bravo negli strapiombi che negli incastri di mani e piedi. Poi ci sarebbero serviti i friends, che non avevamo, invece piantavamo i dadi nelle fessure, ma erano protezioni aleatorie.
Per risparmiare dormivamo nelle radure della foresta e quando alla sera una donna passava per riscuotere il pedaggio noi non ci facevamo mai trovare. Il ricordo più bello è stato quegli abeti di oltre due metri di diametro che si alzavano poderosi e bellissimi sopra le nostre tende. La potenza della natura!

Cos’è più importante per te: la via, la cima che si raggiunge attraverso questa, oppure il gesto atletico?
Devo fare un distinguo: in falesia per me è più importante la qualità del movimento, la bellezza del gesto atletico, in una via in ambiente è la bellezza della montagna che mi richiama; io non vado in qualsiasi gruppo montuoso, perché faccio una selezione degli ambienti più belli e delle vie più eleganti. Cerco di scegliere sempre una bella montagna e una bella parete.

Ti senti più un arrampicatore o un alpinista?
Entrambe le figure. L’una non esclude l’altra. Di sicuro mi esprimo meglio sulla roccia e oggi arrampico di più in falesia che sul misto. Quando posso vado nelle Dolomiti, ma se il Monte Bianco o il Cervino fossero più vicini, in bicicletta sono un po’ lontani, ci andrei molto volentieri con piccozza e ramponi. Molti anni fa ho fatto diverse salite sulle Occidentali, ma mano che passavano gli anni si sono come allontanate… Ma la bellezza di quelle montagne è unica, davvero!

 

Torre Trieste, Civetta 1981: tratto chiave della via Carlesso 6c/7a percorso in libera negli anni ’90. Foto arch.Lucio Bonaldo

 

Il mito della Civetta esiste ancora o è stato superato da altre pareti o montagne?
Non lo so, ma per me quello della Civetta è il gruppo Dolomitico più bello!

Cosa e dove si può ancora esplorare?
Il mondo è pieno di posti da esplorare. Ma bisogna improntare l’esplorazione sull’apertura, non nell’ambizione, allora ci saranno sempre luoghi interessanti da conoscere. Però solo con un’apertura d’animo e mentale si potranno scoprire nuovi mondi e comprendere che anche quello in cui viviamo è bello, basta guardare ed osservare con la giusta predisposizione, allora il bello è ovunque.

Sei informato su come viene interpretata l’arrampicata oggi? Sai di arrampicatori come David Lama (morto in un incidente sull’Howse Peak il 16 aprile 2019) o di Hansjörg Auer, entrambi praticanti il free solo, ovvero l’arrampicata libera e solitaria, senza assicurazione, come peraltro era nella filosofia di Paul Preuss?
Io vivo molto appartato e non sono direttamente informato sull’evoluzione dell’arrampicata, ma capisco benissimo questi fatti e come le persone possano cercare di andare oltre i propri limiti, però quella che uccide è sempre la solita questione: l’ambizione!
Il free solo in sé va bene perché permette di vivere un grande senso di libertà e di esplorare le proprie possibilità, ma deve essere guidato da un’armonia interiore e non dal desiderio di volere sempre di più per finire schiavi della stessa aspirazione. Bisogna andare oltre, trascendere e cercare anche la libertà interiore. C’è da dire che, più alziamo i limiti delle nostre possibilità, più inevitabilmente ci avviciniamo al rischio di fallire. Da un punto di vista psicofisico non si può stare molto a lungo sulla soglia del limite perchè lo stress ci usura presto e chi è in questo stato ha un’ipertensione che non gli permette di gustare appieno quello che fa. Allora pèrchè rischiare così tanto?

Forti arrampicatori come Manolo in gioventù si allenavano alla sbarra, facendo trazioni con due o un dito, tu come ti preparavi?
A suo tempo anch’io ho fatto quelle cose lì, ma per poco. Gli allenamenti a “secco” sono davvero alienanti. Lavorare solo sulla forza muscolare e quella di volontà aliena, togliendo la bellezza e l’armonia del gesto. Io ho sempre preferito l’allenamento all’aperto, sulle pareti naturale e con un paesaggio da guardare. Allenarsi va bene, ma col senso della misura pèrchè a tirare troppo si rischia di “rompersi”.

Mentre la maggior parte degli scalatori cerca le luci della ribalta, tu te ne sei sempre rimasto nell’ombra, in disparte…
Sì, perché essere nell’ombra significa non anelare all’ambizione, ma cercare di fare e vivere le azioni giuste, belle e piacevoli. Sai, l’ambizione divide dalla realtà e porta a chiudersi in sé stessi. Chi cerca le luci della ribalta e di far vedere che è meglio o più forte di un altro, non vive mai in profondità, ma sempre in superficie e senza saperlo si fa del male. Non bisogna cercare di essere sopra gli altri, ma di elevarsi spiritualmente. Scalare va bene, ma cercando sempre l’equilibrio psico-fisico, senza farsi prendere troppo dal fare, altrimenti si diventa schiavi.

Piccolo Dain di Sarche: Lucio sulla via Loss-Pilati 6c+ salita in libera nel 2000 dopo averla salita nel 1980. Foto arch. Lucio Bonaldo

1983 Finale Ligure: Lucio sulla via Dancing Dalle di Berhault 7°. Foto arch.Lucio Bonaldo

Ti sposti sempre in bici, è una scelta etica o una necessità?
Uso anche la macchina, ma con molta parsimonia. Per me andare in bicicletta è tutto: è il desiderio di non inquinare e rispettare l’aria. Se amiamo l’Aria entriamo in una vibrazione tale che respiriamo solo le sue parti buone e non l’inquinamento. Inoltre, se uno non inquina, o comunque lo fa misuratamente, respira meglio. Perché quello che si semina si raccoglie, per cui se inquini molto ti ammali di più.

Conduci una vita molto introspettiva e ti fai il pane in casa andando a prendere l’acqua in montagna. Segui una particolare alimentazione?
Direi una vita raccolta… Per quanto riguarda la mia alimentazione è frutto dell’ascolto del mio corpo, della terra e del cielo: loro mi dicono di cosa ho bisogno. Dal 1984, con l’approccio alla Macrobiotica e al biologico, tutta la mia vita è cambiata. Ho capito che un’alimentazione sana è benefica per il corpo e lo spirito e che la qualità dell’aria ha una sua grande importanza Mi piace bere l’acqua pura che scorre da una sorgente: tutta un’altra cosa rispetto a quella del rubinetto. Così, quando vado in “valle” ad arrampicare, al ritorno me porto a casa una tanica. Poi il pane me lo faccio con le mie mani da tanti anni perché è il cibo più semplice e buono che ci sia, è il cibo che cadenza la nostra vita.

Non fumi e non bevi alcolici, è una forma di disciplina che ti sei imposto?
No. Quando vivi in armonia con te stesso e con la natura non hai bisogno di compensare vuoti o cercare degli “sballi”; puoi anche bere del vino, ma poco. Uno beve molto per caricarsi, uno fuma tanto per rilassarsi, questi vizi sono praticati da chi è stressato! Bisognerebbe cercare sempre di capire cosa sia giusto o sbagliato, senza mai autogiustificare le proprie cattive azioni. L’autogiustificazione è la base dell’ignoranza! Bisogna invece cercare la verità che in un’evoluzione spirituale prima o poi si trova.

Mi hanno detto che sei appassionato del gioco degli scacchi…
Sì, una volta giocavo molto, adesso meno perché è molto impegnativo. Ho sperimentato che dà un punto di vista mentale gli scacchi hanno lo stesso valore dell’arrampicata per quello fisico. Attraverso questo gioco complesso un individuo può esprimere tutta la sua fantasia mentale. È un gioco molto vario, con molte dinamiche, un po’ come l’arrampicata e lo considero complementare a questa per l’ordine mentale con il quale la si dovrebbe praticare.

2022, Lucio nella palestra di roccia di Val Schievenin. Foto Vittorino Mason

2022, Lucio nella palestra di roccia di Val Schievenin. Foto di Vittorino Mason.

Come hai vissuto le restrizioni causate dal Covid 19?
Ho cercato di fare la vita di sempre continuando ad andare in falesia e, per ovviare ai controlli, partivo con la mia bicicletta e con la borsa della spesa… Non si può stare al chiuso, bisogna uscire e vivere all’aria aperta perché questo previene le malattie.
Tutti gli scienziati sono concordi nel dire che la causa della pandemia sia stata un virus, ma io dico che è l’egoismo ad averla innescata. Come? Sì, l’egoismo è la causa di tutte le malattie gravi e permette a questi virus di attaccare e provocare danni al nostro corpo. Il virus è un parassita che vive e prolifera perchè siamo noi ad alimentarlo con il nostro cattivo modo di vivere.

Sei un uomo di fede?
Sì, ho imparato a comprendere la fede spirituale. Se uno ha fede è perché si sviluppa spiritualmente e conosce l’unità con lo spirito. Ascolto lo spirito che è sostanza divina: l’anima della nostra anima, Dio, l’essere assoluto che comprende Tutto. Nella via della comprensione i miei maestri sono stati Gesù e Lao Tze; quest’ultimo, il filosofo cinese, ho dovuto leggero e rileggerlo per metabolizzare i suoi aforismi.

E la vita finisce con la morte?
No, quello è un fatto fisico perché la morte è solo la fine del corpo: noi siamo abitanti di un vestito che un giorno dobbiamo toglierci. Il corpo ha un tempo limitato, l’anima no, lei continua il suo percorso di sviluppo.

Vittorino Mason