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25 Maggio 2012

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FULVIO SCOTTO, IL RAGAZZO CHE SAPEVA SOGNARE Intervista di Christian Roccati

MountainBlog è per tante persone oramai un “luogo” in cui trovare un momento di serenità, un “posto” dove informarsi e dove trovare refrigerio dalla calura della frenesia della vita moderna. È oramai per molti una sana abitudine. Beh… possiamo dire che anche MB ha delle usanze ricorrenti, ed una di queste è contraddistinta dall’incontro con alcuni tra i più significativi personaggi dell’universo Montagna, italiano ed internazionale.

Per questo abbiamo deciso d’intervistare Fulvio Scotto, alpinista-esploratore e scrittore savonese, nato nel 1954. Il forte scalatore non è conosciuto soltanto per la sua abilità sulle pareti, ma anche e soprattutto per la sua visione, moderna eppure romanticamente tradizionale, di tutto ciò che può dirsi alpinismo. Le sue opere portano una firma che viene riconosciuta, oggi come nelle decadi passate.

Mountainblog non poteva che avvicinarsi a questo personaggio, maggiomente al centro dell’attenzione in questo periodo, grazie alla sua ultima fatica, Scarason, il libro neoedito da Versante Sud, che sta facendo davvero parlare di sé. Si tratta di un lavoro incredibilmente accurato che non cade nella trappola del trasformarsi in un elenco telefonico di date ed eventi, con una narrazione piacevole ed avventurosa, che non abbiamo paura di appaiare a quella di Jack London!

Da quando vai in montagna?
Vado in montagna dal 1975, quando ho finito di studiare all’ISEF di Milano. Nel centro universitario dove vivevo ho conosciuto dei ragazzi di Lecco e di Bergamo che praticavano l’alpinismo o comunque la montagna e le cui diapositive mi avevano affascinato. Uno di loro, Marino Lafranconi, mi aveva prestato il libro “Le mie montagne” di Walter Bonatti, che avevo letto con molto interesse cominciando a galoppare con la fantasia e a fare qualche progetto, o più che progetti sogni.
Ero già abituato, da bambino a girare da solo per i boschi e l’ambiente solitario, un po’ selvaggio e misterioso, mi attirava.

La montagna era dunque il contesto ideale verso cui orientarsi. Così mi sono comperato una cartina IGM del Col Longet in Val Varaita, ove ero già stato con i miei genitori sotto la guida di uno zio. L’ho appesa alla parete e su di essa, su quel colle ad oltre 2600 metri, tra cime e laghi alpini, ho iniziato a progettare una specie di campeggio in tenda, con la mia ragazza, oggi mia moglie Cinzia, ed altri amici che poi è durato una dozzina di giorni. E’ stata un’esperienza indimenticabile anche a distanza di tanti anni.

Come hai cominciato?
Mi sono avvicinato alla montagna nel modo più naturale, cercando le vie più semplici, per lo più le vie normali per raggiungere la vetta delle montagne che mi attiravano maggiormente, spesso solo con l’aiuto della carta IGM al 25.000. Ho iniziato proprio al Col Longet salendo con due amici il Roc de la Niera, ove una persona incontrata per caso, preoccupata nel vederci ravanare su per la paretina verticale, ci offrì di legarci alla sua corda… Già la mattina dopo, da solo, salivo sul prospiciente Mongioia inventandomi un possibile accesso dal versante nord ovest…

Tornato dal campo al Col Longet ho cominciato ad andare in giro per lo più da solo e poco alla volta ho conosciuto altri appassionati di montagna. Ho poi iniziato a cercare anche itinerari gradualmente più impegnativi, facendo delle prove di arrampicata sulle rocce del nostro Appennino del Beigua. Intanto l’amico Lafranconi mi ha procurato una bella corda, quaranta metri da nove millimetri di un blu molto fotogenico e che portavo in giro a tracolla con grande orgoglio. Con essa mi legai addirittura con il grande Nino Oppio incontrato nell’inverno ’76 al rifugio Brioschi, nella traversata alta delle Grigne… Il mio primo chiodo l’ho trovato e recuperato, con l’aiuto di una pietra, alla Punta Tuschetti nel Beigua, un bel Simond nuovo e luccicante. Così continuai a gironzolare nella zona: Bric Camulà, Rocca Turchina tutti posti di roccia piuttosto marcia… La cosidetta falesia, allora si chiamava palestra di roccia, l’ho scoperta solo successivamente.

 

Tra le prime ascensioni la normale al Monviso in primavera, sepolta sotto metri di neve. Su questa bellissima montagna sono tornato poco dopo per la parete nord, poi il Canale di Punta Caprera ed il Vallanta per lo spigolo nord est, tutte da solo. Subito dopo ho fatto lo Sperone della Brenva al Monte Bianco e nell’inverno sono tornato, ancora da solo, sulla nord del Viso.

Su roccia in montagna ho provato la prima volta allo spigolo nord est della Guglia Manzone e la settimana dopo sono andato a fare la via Campia al Corno Stella che non avevo mai visto prima, entrambe da solo e senza incontrare anima viva… Ghiaccio d’inverno, l’ambiente grandioso del Bianco, il salire sulla roccia… è stato l’inizio di una passione da cui non mi sono più liberato…

Quale tipo di montagna preferisci?
Preferisco la montagna d’avventura, gli ambienti remoti e solitari ove la salita alpinistica sia anche ricerca, esplorazione, scoperta di angoli e scorci nuovi, almeno per me. L’aspetto sportivo, l’emulazione che ovviamente riconosco come elemento fondamentale ( ! ) viene un po’ in second’ordine. Anche per questo motivo, ad esempio, non mi piace ritornare su vie che ho già percorso o andare a fare la solitaria di una via già fatta insieme ad altri.

Quante vie hai aperto?
Ho aperto oltre un centinaio di vie in montagna, soprattutto in Marittime e Cozie, prediligendo sempre il “terrain d’aventure” su roccia e su ghiaccio. La falesia o comunque la montagna ”stile falesia” come ad esempio la Castello mi hanno sempre interessato poco, pur se mi è piaciuto andarci di tanto in tanto, sia per apprezzare la gestualità (piuttosto scarsa in vero nel mio caso…) della bella arrampicata che per cercare un po’ di allenamento com’era nella mentalità delle passate generazioni.

Quale montagna e quale via hai amato di più?
Ci sono stati diversi periodi. Nei primi anni la montagna che sentivo più vicina e più era conforme al mio tipo di approccio è stata il Monviso. La sua sagoma triangolare, la quota della sua vetta, di gran lunga più alta di tutte le altre delle nostre valli sud occidentali, il terreno misto ma in genere non estremo, tipico del grande alpinismo classico… C’è stato un periodo in cui la sentivo come fosse un territorio mio… In quel periodo ne ho percorso la maggior parte delle vie d’estate e d’inverno, da solo o con altri, ed in questo gruppo montuoso tra Val Varaita e Valle Po ho aperto circa una quarantina di vie nuove.
Poi c’è stato il periodo in cui ho frequentato maggiormente il Monte Bianco, soprattutto con Sandro Nebiolo e Gene Novara, verso la fine degli anni 80. E poi in Marittime il Corno Stella, soprattutto la parete nord. Lo Scarason infine è stata una montagna alla quale mi ha unito un legame particolare, dall’inizio degli anni 80 ad oggi, soprattutto per la sua storia e per quella dei personaggi che vi si sono avvicendati.

Perché vai in montagna?
Ho iniziato ad andare in montagna e continuo tuttora, anche a costo di una maggiore fatica, per il fascino che ha sempre esercitato su di me l’ambiente, soprattutto nel suo aspetto un po’ remoto e un po’… “selvaggio”. Poi certamente mi ha spinto, soprattutto in un secondo momento (…cioè forse dopo la prima vetta salita…), l’emulazione, senza la quale non esisterebbe l’alpinismo e neppure una buona fetta dell’evoluzione del genere umano.

Che cos’è e che cosa rappresenta per te lo Scarason?
Lo Scarason ha rappresentato fin dall’inizio, dalla prima lettura del libro di Alessandro Gogna, “Un alpinismo di ricerca” a metà anni 70, il mito alpinistico delle nostre montagne. Mi ci sono avvicinato con grande timore reverenziale, mi sembrava una cosa impossibile per il mio livello di capacità. L’entusiasmo provato con la salita in giornata della via Gogna, dopo le ripetizioni di Gianni Comino e Marco Bernardi, e dopo l’averne ammirato a lungo la parete la mattina seguente, ha fatto nascere in me il desiderio di tornarvi per una via più diretta alla vetta, cosa che si è realizzata qualche anno dopo.

Perché hai deciso di fare una pubblicazione del genere su questa parete?
All’inizio mi incuriosiva scoprire qualcosa di più sui misteriosi tentativi di cui si favoleggiava e di cui avevo trovato traccia aprendo la via Diretta nell’87. Mi attirava anche il sapere come erano state effettuate le prime ripetizioni, le motivazioni e le emozioni dei protagonisti… Questa curiosità si era accentuata parlando con Armando Biancardi e poi con Piero Billò che mi aveva prestato i quaderni con il diario autografo di Sandro Comino. Poco alla volta è nata l’idea di contattare i ripetitori, di incontrarli in una vera passerella di nomi prestigiosi, raccogliendo tutto il materiale possibile sulle loro salite e soprattutto sulla loro personalità. E’ stato un lavoro meticoloso, durato anni.
Alla fine lo Scarason è stato un pretesto per un viaggio attraverso l’ultimo mezzo secolo di alpinismo delle Alpi sud occidentali ma con riferimenti e confronti anche con le altre montagne.

Quale pensi che sia il futuro della montagna?
Se devo ascoltare un sentimento istintivo, ma certamente ingenuo, vorrei che anche la nostra montagna rimanesse luogo selvaggio, solitario, terra di nessuno, “terrain d’aventure” come dicono i francesi, almeno nei suoi angoli più remoti come l’ho immaginata fin dall’inizio.
Temo fortemente però che poco alla volta possa venir trasformata in un grande parco giochi…”montagnaland”… ove si potranno seguire percorsi avventura, verdi, rossi o neri secondo la difficoltà, come le piste da sci. Dove si potrà praticare lo sport della roccia sulle vie omologate e consentite, magari solo dopo aver preso il patentino che ti abilita e pagato l’ingresso… dove si dovrà stare alla larga dai posti vietati, sorvegliati da web cam, perché più pericolosi e quindi non coperti da polizza d’assicurazione, non certo per proteggerli! E poi tanti rifugi alberghetti dove si potrà trovare polenta concia… magari con Coca Cola.

 

Naturalmente la struttura avrà un’architettura assurda, vedi il nuovo rif. Gervasutti alle Jorasses… come fossero tutti novelle “case sulla cascata” ideati da un Wright delle montagne…
Che tristezza l’organizzazione e l’omologazione che ci faranno sentire tutti così tutelati e sicuri. E facendoci seguire il percorso indicato, ci farà perdere una porzione della nostra libertà, anche la libertà di sbagliare…

In questo periodo si dibatte spesso del problema della sicurezza sulle pareti di falesia e di montagna e se ci sia qualcuno che debba accollarsi il compito di provvedere alla messa in sicurezza od arrogarsi il diritto di regolarne l’accesso. Credo che quando un’istituzione o anche un privato (magari un rifugista…) si prende la briga, o se preferiamo si assume il compito di mettere in sicurezza ed attrezzare un percorso, un sito, con l’evidente scopo di farlo frequentare da persone che divengonoquasi degli utenti, va ad assumersi delle responsabilità…

Diventa poi facile, in una società sempre più propensa a sfruttare rivalse giudiziarie a fini lucrativi, dire che l’incidente c’è stato perché chi ha fatto il lavoro non lo ha eseguito in modo adeguato… Allo stesso modo chi attrezza una via ferrata, come chi chioda in modo permanente una via…non c’è gran differenza… Lo Scarason invece era il luogo del rischio per antonomasia, del “terrain d’aventure” e questo secondo me doveva rimanere. Una salita che puoi fare se sei in grado di guadagnartela tu, entrando in quella dimensione di rischio, senza che qualcuno ti “tenga per il bavero” come dice Gogna nel finale del nostro film.

Mi ha intristito l’attrezzatura con trapano e fix in scalata artificiale, in più riprese come un cantiere, di un percorso nel settore meno accessibile della parete. Doveva secondo me rimanere il luogo della non certezza della riuscita. L’antitesi di quella pubblicità che ironicamente recita: “…ti piace vincere facile?”…

Cosa diresti ad un ragazzo che inizia ad andare in montagna od a fare alpinismo?
Di stare molto attento perché se dovesse mai farsi travolgere dal virus dell’alpinismo vero (non la semplice pratica per lo sport della scalata) metterebbe a repentaglio il suo futuro e la vita stessa, stravolgendone il normale percorso e rischiando a volte anche la “pellaccia”. Ma sarebbe un avvertimento inutile perché se ti becchi quel virus… l’antivirus non c’è ancora…ti si fotte l’hard disk.

Intervista di Christian Roccati

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