È un quadrilatero perfetto quello che si specchia nel Piave. Una figura geometrica tagliata a metà dalla riva del fiume. La parte inferiore si tuffa nell’acqua, quella superiore svetta verso un incredibile cielo azzurro solcato da nuvole peregrine. È il Monte Peron, sentinella di Vedàna – lago e Certosa – e di Sospiròlo. Altezza 1486 metri soltanto. Modesto, ma non tragga in inganno. Le sue radici sono mille metri più in basso e la montagna presenta a sud un aspetto quasi orrido, colore grigio-giallo, quello della roccia importante. Come una montagna “seria”, insomma. La parete è concava e forma un cerchio quasi perfetto di roccia repulsiva e verticale con qualche isola di verde che gli alpinisti chiamano “verdura”. Impossibile ignorarla, specie per chi si accinge a percorrere l’agordino di cui rappresenta l’anticamera.
Il 29 settembre 1989 ebbi l’opportunità di intervistare l’ottimo alpinista bellunese e accademico del Cai, Bruno Zancristoforo, classe 1908, “scopritore” delle potenzialità alpinistiche del Peron.
«All’inizio della mia attività alpinistica il problema più grosso era trovare un compagno che avesse voglia di arrampicare. Si fece avanti Carlo Miari, il conte Carlo Miari. Andammo subito al Peron, montagna che avevo già adocchiato e corteggiato con la fantasia. Avevamo un solo chiodo, un solo martello e una cordicella di Miari, nuova di zecca, non molto pesante.»
Siamo alla fine degli anni Venti del Novecento, quelli dell’alpinismo classico spinto a grandi livelli e chiamato “eroico”. È un’alba radiosa. Due giovani partono da Belluno, a piedi diretti verso il Mas. Giunti alle case di Peron lasciano la strada e salgono verso la parete meridionale del monte con la seria intenzione di scalarlo. È la prima volta che un alpinista vero si avvicina a quella struttura con intenzioni simili. Cacciatori e bracconieri l’avevano certamente già conosciuta, forse traversata alla base o sulla cupola, magari parzialmente salita qua e là, ma mai con intenti alpinistici. Quei due ragazzi erano i primi.
«Fino a metà parete – continua Zancristoforo – non fu particolarmente duro. Poi capii che era na roba da mati, meglio tornare indietro. Ci volevano troppe ore per uscire in alto e diventava sempre più difficile. Fu un problema scendere, specie per il conte che non conosceva la tecnica della corda doppia. Io l’avevo già sperimentata con un “maestro” quale Gianangelo Sperti, l’ingegner. In qualche modo scendemmo ancorati all’unico chiodo. Fatta questa manovra ci accorgemmo subito che senza un’altra doppia non saremmo mai giunti alla base. Scendere in libera era impossibile. Risalire? Assolutamente no! Allora trovai in tasca una vecchia chiave, di quelle che si usavano una volta per chiudere i portoni di casa. L’infilai ben bene in una fessura, le detti qualche colpetto di martello, passai sopra la corda appena appoggiata e giù piano piano. Giungemmo sani e salvi alla base e poi alla strada quando l’orologio del campanile già batteva la mezzanotte. Proseguimmo a piedi per Belluno. All’improvviso sentimmo un rumore strano, come di cavallo al galoppo, di carretto cigolante, e poi canti e urla selvagge. Ci mettemmo al centro della strada e fermammo quel “mezzo di trasporto”. Nel buio pesto, tra parolacce e grida, riconoscemmo il “cocchiere”: era Genio Pol, ubriaco sfatto, che andava a Mussoi. Ci fece salire e sferzò la cavalla che partì al galoppo. Che avventura, altro che i pericoli dell’alpinismo…; su quel carro rischiammo veramente grosso. Il carretto toccava terra ed era tutta una scintilla mentre procedeva a slalom. Per fortuna la cavalla era astemia e lucida e ci portò a casa. Dove restai fuori dalla porta perché non avevo più la chiave!»
Passano alcuni anni, forse due o tre, e giungiamo all’8 giugno 1930. Ancora una volta due giovani bellunesi, soci del Cai, uno di 22 anni e l’altro di 19, si avviano da Belluno verso le case di Peron. A piedi! e non è uno scherzo; sono pur sempre dieci chilometri, per di più con uno zaino pesante sulle spalle.
Il più anziano si chiama Bruno Zancristoforo che ritorna al “suo” Monte Peron, questa volta con intenzioni serie e ben attrezzato; l’altro è Ernani Faè che, anche se giovanissimo, di alpinismo ormai se ne intende.
Voglionicompiere la prima ascensione della parete sud ovest del Peron e ci riusciranno. Lo testimonia la relazione tecnica uscita sul numero 5 del maggio 1931 ne La Rivista mensile del Club Alpino Italiano. Impiegate 8-9 ore di arrampicata.
Altezza della parete: circa 400 metri. Difficoltà pari a quella della via Myriam sulla Torre Grande di Averau» (ma il passaggio più difficile è di V+).
Certamente una bella performance, un regalo a una montagna ingiustamente considerata “minore”.
Del Monte Peron scrisse Pierio Valeriano (1477-1558) in Antichità bellunesi: «…precipitò rovinando improvvisamente, seppellì il villaggio di Cordua e sbarrò l’alveo del fiume che allora era rivolto verso il Mis con il quale si congiungeva sotto l’altura di San Pietro a Sospirolo formando il lago che è attualmente riserva di pesca dei monaci dell’abbazia di Vedana…
Il monte franato incute ancora terrore a tutti con l’altissimo palese segno della spaccatura, le ingenti mole dei massi rocciosi lanciati da ogni parte per oltre quindici stadi a devastazione dei campi ancor oggi improduttivi e ricoperti da rovi.»
Secondo lo storico Giorgio Piloni, che nel 1607 pubblicò il prezioso Historia, il cataclisma del Peron è avvenuto il 7 gennaio 1114 (ma non è storicamente provato).
È sull’enorme cicatrice del Peron, dunque, che i due giovani bellunesi Zancristoforo e Faè hanno compiuto la strana ed avvincente impresa. Ed è sui massi caduti a formare le Masiére che probabilmente si erano allenati.
Ancora a proposito del Peron. A natale del 1984 salii l’Aconcagua, la più alta montagna della Cordigliera delle Ande. Dopo la cima scesi con i compagni di cordata a Mendoza dove fummo festeggiati dai numerosi emigranti italiani, moltissimi dei quali bellunesi. C’erano a cena anche alcuni argentini ai quali un nostro fantasioso emigrante raccontò che vicino alla “sua” Belluno «c’è una ardita montagna che porta il nome di Peron» (di Juan Domingo, presidente dell’Argentina dal 1946 al 1955 e poi dal 1973 al 1974). Il nostro concittadino fu talmente bravo nel raccontare la storiella che gli credettero. Seguì una serie infinita di brindisi con l’ottimo vino rosso di Mendoza.
Sta di fatto che ancora oggi in Argentina alcuni sono convinti che i bravi emigranti italiani abbiano veramente dedicato un monte a Juan Domingo Peron. Altri, invece, sussurrano che il monte porta il nome della moglie amata, la bellissima e dolcissima Evita.
I PROTAGONISTI DELLA SCALATA DEL MONTE PERON NEL 1930
Bruno Zancristoforo (Belluno 1908-1991), accademico del Cai, campione di atletica leggera e forte rocciatore. Arrampicò spesso con Ernani Faè e con Alvise Andrich. Con Faè e Gigi Manfroi effettuò la quinta ripetizione italiana della via Solleder in Civetta. Nel 1937 si portò per lavoro in Etiopia dove venne raggiunto dalla “cartolina” e inviato in Eritrea nel corpo degli Alpini. Fatto prigioniero, rimpatriò solo nel 1946.
Ernani Faè (Belluno 1911-New York 1983), accademico del Cai, inizia a conoscere la montagna con il padre cacciatore di camosci, quindi scopre il mondo dell’arrampicata frequentando il forte alpinista bellunese Francesco “Checo” Zanetti e scala con lui la parete nord del Pelmo a soli 19 anni. In Civetta percorre tutte le vie più difficili e ne traccia di nuove. Si trasferisce in Brasile e poi a New York dove lavora al consolato italiano e diventa socio dell’American Alpine Club.
Italo Zandonella Callegher
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