Dopo un lungo volo notturno da Mosca il velivolo dell’Aeroflot ci depone caracollando sulla pista di Barnaùl, graziosa città nell’estremo sud della Siberia. Ci attende un piccolo jet bianco, nuovissimo, grazioso, pulito, che ci porta, dopo aver sorvolato Gorno-Altaysk, sopra una valle circolare attraversata dal fiume Ob.
L’aereo compie alcune ampie spirali poi atterra su una minuscola pista, tanto breve che se ne esce e va a finire sui campi. Sembra una battuta e invece è proprio così: giù tutti a spingere fino a riportarlo sulla esigua striscia di cemento mentre una educata e giovanissima scolaresca attende curiosa e impaziente il momento del rituale benvenuto.
Festa grande oggi nella steppa silenziosa. Sono arrivati gli stranieri. Dagli occhietti furbi dei mongoli e da quelli azzurri degli altaici, i piccoli scrutano con curiosità e intonano un inno di saluto. Poi se ne vanno attraversando la piana verso un edificio che appena si scorge là in fondo, oltre il mare d’erba secca. La baracca di legno che è tutto “l’aeroporto” rimane sola in attesa di un altro volo chissà quando.
Era programmata la salita a piedi fino al campo base, tre – cinque giorni, ma il piacere ci viene negato: si sale nella pancia di un enorme elicottero. Così in poco tempo uomini e cose (e una mucca da macello) si trovano in riva al lago Akkem dove si allarga il Campo Alpinistico Internazionale.
Il volo in elicottero ha permesso di godere di spettacoli inimmaginabili: vallate immense, fiumi serpeggianti, montagne innevate a perdita d’occhio, limpide cascate, la taiga misteriosa, le rare yurte, le poche isbe di legno … Un mondo nuovo dove predominano il verde intenso dei boschi e delle praterie, dove luccica il bianco delle nevi. Su tutto, in fondo alla valle, troneggia superbo il Belukha, la montagna più alta degli Altaj, la nostra meta.
Il Campo Internazionale è efficiente e accogliente. Le tende (comode, da due-tre posti) sono piantate a pochi metri dal lago. Una capanna funge da ambulatorio medico; tutti si sottopongono a una visita obbligatoria prima di programmare le uscite. Un’ampia baracca, costruita alla moda dei nostri montanari con il legno del luogo, diventa sala da pranzo e da “ricreazione”.
Alla sera ogni gruppo canta le canzoni alpine del suo Paese accompagnate, in base alla provenienza, da una chitarra, o da una fisarmonica, o da una struggente balalaika. “La montanara” vince il premio per la miglior canzone: una birra a testa. Naturalmente il campo è anche dotato di un “servizio igienico” che merita due righe per la “rarità” dell’impianto.Si tratta di una baracca lunga e stretta, fatta di tronchi di non so quale albero, e sorge a un centinaio di metri a monte dell’ultima tenda, entro un boschetto di betulle. Ciò è molto romantico tanto che a uno sguardo distratto appare persino un bel posto. Ma appena si entra nello strano “locale” si cambia subito idea.
Lo stanzone è lungo una ventina di metri, largo quattro o cinque, semibuio. Su tre lati, tranne in quello d’entrata, corre un mobile-panca, una specie di enorme bara di legno, alta da terra circa cinquanta centimetri e larga altrettanto. Alla distanza di un metro l’uno dall’altro c’è un foro rotondo del diametro di trenta centimetri circa, così che “i bisognosi” internazionali devono salire sulla panca e espletare ai propri doveri centrando il buco.
Nulla di straordinario, dirà qualcuno. Nelle nostre campagne e sulle nostre montagne fino a cinquant’anni anni fa si faceva lo stesso. Sì, ma c’era il rispetto della privacy; voglio dire: uno alla volta, per carità … Mentre qui, nelle ore di punta, poteva capitare di trovarsi in 20 e più persone a fare tutti assieme, ognuno nel proprio idioma, quello che il lettore ha ben capito. Non parliamo poi di coloro che usavano la “panca” nelle prime ore del mattino quando il legno era coperto dal gelo. Un austriaco scivolò e finì dentro la buca; quel che successe all’alba di quel radioso giorno di spedizione lascio a voi immaginare.
L’Altaj è un grandioso sistema di montagne che si erge nella parte meridionale della Siberia al confine fra la Russia e il Kazakhstan, la Mongolia e la Cina. Da nord ovest a sud est si sviluppa per 2000 chilometri in un ambiente eccezionalmente bello e realisticamente incontaminato. Secondo una etimologia di origine turca Altaj significa “montagne d’oro” ed è formato da numerose catene.
Il confine divide l’Altaj russo da quello mongolo, quest’ultimo nettamente differenziato dal punto di vista orografico: le montagne più alte si trovano nell’Altaj russo, mentre quello mongolo è meno appariscente alpinisticamente e forma tre settori ben distinti: l’occidentale con punte prossime ai 3500 m dal quale si dipartono dorsali minori che vanno a spegnersi nella depressione semidesertica della Zungaria; quello centrale con vette superiori ai 4000 m; infine il settore orientale dove le montagne raggiungono i 3900 m per poi digradare verso la regione desertica dei Gobi.
L’Altaj russo domina a nord il bassopiano siberiano occidentale tra i grandi fiumi Ob e Jenisej, mentre a occidente si affaccia sull’immensa steppa ondulata. È formato da un insieme di catene orientate, nel settore meridionale, da est a ovest e, nel settore settentrionale, da nord a sud. L’Alto Altaj racchiude la perla più preziosa, la massima elevazione dell’intero sistema: il Pik Belukha, 4506 metri. È senza dubbio il settore più maestoso e accidentato, percorso da profonde vallate dove scorrono alcuni fiumi, due dei quali danno origine al fiume Ob, il maggiore della Siberia che, dopo 5300 chilometri, sfocia nel Mare Glaciale Artico.
I maggiori interessi alpinistici sono offerti dal Belukha Est 4506 m, il Belukha Ovest 4450 m, il Pik Delone 4200 m, il Pik Berelski, il Pik Roerich, il Pik Kara-Oiuk 3950 m, il Pik Boris e il Pik Bronia 3660 metri. Su quest’ultimo ho compiuto, con l’amico veneto Gustavo Polloni, una bella “prima” lungo la cresta e la parete ovest, una via di misto con una traversata su ghiaccio da cardiopalma per la mancanza di ancoraggi sicuri. Cadere sarebbe stata una corsa mortale lunga mille metri …
Degli Altaj non traggano in inganno le quote relativamente basse. Qui le distanze sono enormi, il limite dei ghiacciai è basso, le pareti sono altissime, difficili, battute da slavine, il tempo è orientato al brutto, l’umidità e il freddo sono compagni inseparabili. Il lago Akkem, per esempio, sulle cui rive sorge il campo base, è a “soli” 2050 metri di quota ma, nonostante si fosse a fine luglio, era gelato ogni mattina. Ma nelle immediate vicinanze si stendono immensi prati di stelle alpine e di mille altri fiori che precedono la misteriosa taiga.
Il bacino del Mjuschtu-Airy si raggiunge scavalcando il passo del Riga-Turlett, a sud ovest del Bronia. Da qui si scende fino al lago Kutscherlà sprofondato in una valle idilliaca e circondato da montagne bellissime e sconosciute.
In questo eden primordiale si incontrano le orme degli orsi e della tigre siberiana e si vede l’aquila volteggiare sospinta dalle fredde correnti dell’alta quota.
Le fasi culturali dei Karasuk, dei Tagar, dei Pazyryk…, hanno fatto registrare importanti ritrovamenti archeologici.Tombe dei secoli VIII – VII sono state scoperte negli Altaj meridionali nel 1763, poi ancora nel 1865. Sono venute alla luce alcune kurgan, tombe a cumulo (con cella di legno per la salma imbalsamata) e altri locali per la sepoltura dei cavalli di proprietà del defunto. Queste tombe, ricoperte di ghiaccio, hanno permesso una perfetta conservazione dei corpi.
Scesi dalle montagne abbiamo potuto visitare le povere isbe, le capanne di legno abitate da vecchietti ospitali. Le pareti interne sono intonacate di bianco su graticcio di legno come si usava molto tempo fa nelle case del Cadore. Una stufa sta al centro della capanna. L’inverno qui deve essere micidiale.
Sulla vetrina, che è l’unico mobile oltre ad un tavolo e tre sedie, sfilano alcune vecchie fotografie in bianco e nero che stanno ingiallendo e accartocciandosi. Un nonnino butta lì qualche parola in tedesco. Capisco solo che ha combattuto nella campagna della sua Russia nel 1940-45, che è stato prigioniero dei tedeschi, che gli italiani sono “buona gente”, eccetera!. Sua moglie, la matrioska, brontola un po’. Certe cose è meglio non dire.
Regalo qualcosa di italiano e me ne vado più triste di loro … Oltre l’orto che sa di cavoli c’è un’unica strada incredibilmente fangosa che attraversa il villaggio. Un signore indispettito, forse una guardia, ci invita a lasciare il luogo. L’anziano è ancora sulla porta, commosso, e alza la mano in segno di saluto. Gli Altaj mi sono rimasti nel cuore anche per quel gesto.
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