Le luci in sala si abbassano, la cassa toracica entra in risonanza con le vibrazioni dei gravi e il suono vibra prima il sangue e poi l’anima. Capitoli… Capitoli? Si… capitoli.
Il primo scorre rapido sulla presentazione dell’immensa montagna e dei piccoi sciatori che la osservano; il sguente ci porta sulle tracce dei maestri, le grandi aquile. Il loro sguardo si riflette in quello degli allievi, gli uomini, copia di copia di un’idea perfetta, che solca il cielo prima ancora della realtà, supera il proprio archetipo e squarcia il velo dell’esistenza.
Ed ecco il capitolo terzo, la discesa… giovani umani si trasformano in creature… In un vissuto onirico ombre di stregoni dalle maschere di rapaci, congiungono in un berserking i rapaci che picchiano e gli sciatori che cabrano, fiamme tra le tenebre tra tizzoni di buio che si trasformano in fuoco di cristalli in tormenta illuminata dal sole. Metavisione, la sala intera si trasforma negli uomini che volano sulla neve in metamorfosi: rappresentazione, questa è arte, questo è il Banff.
Primo filmato terminato “In to the mind“.
Il sipario si è aperto o forse non s’è mai chiuso per chi c’era l’anno passato e con pazienza ha atteso ben dodici mesi per questo spettacolo. Prima che i pensieri distraggano le menti, ecco subito il secondo “Spice Girl“, dalla bianca polvere all’ancestrale gritstone inglese. Il gioco è seguire le peripezie di Hazel Findlay una biondina che associeresti all’attrice Melissa Rauch, per simpatia e per essere identica al personaggio “Bernadette” della celebre serie Big Bang Theory, voce compresa… è invece la fanciulla non è solo simpatica e bella, ma talmente brava da siglare il primo E9 femminile per poi spingersi insieme alla fortissima Emily Harringtonin in Marocco affrontando una magnifica linea di 18 tiri fino al 7c+ su roccia friabile quasi interamente da proteggere…
Cosa ci può stupire dopo due opere del genere? La condizione umana è la risposta… Con High tension si esplora l’antropologia e l’etnografia mediante Simone Moro, Ueli Steck e Jonathan Griffith, in riferimento alla condizione storica e attuale degli sherpa, degli alpinisti e dei turisti degli 8000. Infiniti sono i richiami al caleidoscopio della realtà e dell’interpretazione, delle usanze, del rispetto e dell’enorme piccolo, grande, minuscolo, infinito nostro mondo, in qualsivoglia tempo, dimensione e misura.
Fine primo atto… qualcuno va in toilette, chi parlotta, i saluti di rito. La sala respira come un polmone, qualsiasi sala… Il popolo degli appassionati della montagna si ritrova e non può che confronarsi: chi pensa d’essere al cinema si comporta di conseguenza, tutti gli altri, galvanizzati dal visto, si lanciano in commenti e progetti per l’impossibile salita o allenamento del giorno seguente. Premi a estrazione tra le due sale e un applauso che nasce spontaneo quando una suora presente alla proiezione vince contenta una maglietta tecnica, e il suo entusiasmo ci fa gioire tutti.
Si ricomincia…
Ed ecco la raffica che aspettavamo: fumo, acqua, luce e tenebra che scorrono in Messico, in “Cascada“, canoe in qualsivoglia colore e tipologia, utilizzate come mezzo di trasduzione dell’essere umano in liquido, in una jungla sperduta e selvaggia. E poi, dall’acqua vera a quella pietrificata, grazie agli stili di Gary Fisher e Joe Breeze, hard all mountain e trial freestyle, che attraversano l’austriaco “Sea of Rock“.
…è il turno di “Dream Lines IV“ una delle possibili realizzazioni del sogno di icaro che un gruppo di angeli in tuta alare, capitanati da Jokke Sommer, vive sorvolando crinali, boschi e piste da sci. Il senso di libertà pervade il fruitore quasi quanto l’adrenalina, una sorta di respiro continuato che non ha alcun prezzo, se non quello di pochi e autentici sorrisi.
Grandissimo exploit di The last great climbing l’ultima avventura di Leo Houlding, Sean “Stanley” Leary e Jason Pickles, nella ricerca e realizzazione di una nuova via di scalata su una remota e inviolata guglia dell’Antartide, la Ulvetanna Peak nella Queen Maud Land. La bellezza della parete è davvero unica nel suo genere ed è evidente il perché il suo nome significhi “zanna di lupo”. Risulta difficile anche solo immaginare la fatica e il controllo mentale per realizzare alcune scene certamente ripetute nonostante le tempeste in arrivo, con inquadrature dall’alto e dal basso. Probabilmente solo un alpinista specializzato nella scalata può capire davvero cosa voglia dire avere la fermezza di effettuare due volte un tiro per tale scopo in una prima ascensione in tali condizioni.
Chiusura perfetta con “Valhalla“… potremmo definirlo sci a fior di pelle, ma per evitare qualsiasi spoiler è bene non aggiungere altro!
Che dire? Gli astanti fremevano prima di entrare e sognavano all’uscita, rappresentazione di realtà trascendenti che trasformano l’immanente: si il BANFF è davvero arte pura.
Christian Roccati
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