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26 Settembre 2020

Senza categoria

Cinque giorni, un’estate e sessanta metri di roccia

Era la fine degli anni ottanta quando con l’amico Stefano scorrazzavo sulle rocce delle Valli di Lanzo alla ricerca di qualche linea nuova. Avevo conosciuto Stefano in occasione dell’organizzazione di una prova del Campionato Italiano di Arrampicata che si svolgeva sulla roccia naturale della Val Grande di Lanzo, poi naufragata miseramente all’insegna delle contestazioni. Di bassa statura e con i neri capelli ricci, Stefano era un mini-sosia di Eric Escoffier, somiglianza ancora di più accentuata dall’abbigliamento molto “francese” in auge in quegli anni tra gli arrampicatori. Di quel 1989 ricordo le arrampicate tardo- pomeridiane, terminate quasi sempre nell’oscurità e con rientri delle volte a “quattro gambe” tastando il terreno. Questo, almeno, finché anche noi ci munimmo finalmente di pila. Ricordo le fughe sull’infido serpentino della vicina alta Valle di Ala, dove quasi tutto era ancora inesplorato e noi si saliva con qualche chiodo tradizionale e con i pochi nut che avevamo. Fu così che, un’estate, vagando lungo i contrafforti dell’Uja di Mondrone che sovrastano l’abitato Balme, scovammo un diedro un po’ rovescio che attaccammo con molto slancio e troppo poco materiale. Anzi, a dire il vero oltre che insufficiente il materiale era di misura troppo piccola per le dimensioni della fessura di fondo. Barammo un po’ ma alla fine salimmo, chiamando quella breve salita “Incubus” (VII/A2) a testimonianza dei momenti temerari vissuti. Fu un’estate incredibile, in cui poco più che ventenne, alternavo arrampicate un po’ “visionarie”, cene tra amici e feste, e inseguivo amori impossibili. Tutto passa inesorabilmente, e dopo quegli anni parecchia roccia è passata sotto le mie mani.  Migliaia di vie, di cui tante nuove. Certe salite, però, un po’ per colpa nostra, sono destinate a cadere nell’oblio. Questo perché riteniamo che le vie importanti nel frattempo siano diventate altre. Dimentichiamo così quelle piccole storie che sono state i primi mattoni della nostra passione per la roccia e per l’esplorazione. Può anche capitare che quelle pareti, un tempo snobbate da tutti, oggi attirino invece l’interesse degli arrampicatori locali. Nascono così nuovi progetti e nuove linee, senza che si sappia dell’esistenza di tentativi o di salite precedenti. Nulla di male, ma forse è anche per questo che mi è venuta voglia di tornare su quelle balze e di recuperare in ottica moderna quella piccola storia giovanile. Capita agli scalatori non di “primo pelo” come me. La giornata è bella e i fix messi al punto giusto salendo, in compagnia dell’amico Umberto, suggellano la fine di un’estate davvero particolare, non solo da punto di vista “alpinistico”, ma anche emozionale e creativo. E la via? Sento già chiedere da qualche scalatore che si sarà annoiato a leggere queste poche righe, che volutamente (e come sempre) rifuggono il più possibile il “tecnico”. Beh, “al tempo” è un semplicissimo “6b”, e non cercavo certo di collocarla in questa sede in un contesto d’interesse collettivo. Anche se è vero che spesso mi capita di leggere di scalatori che, grado o no, sanno vendere bene ogni semplice monotiro che chiodano. Io, che sono sempre stato “diversamente arrampicatore”, ritengo che la vita sia fatta di mille emozioni, d’incontri, di riscoperte, e che l’arrampicata o la scalata siano solo un mezzo come tanti altri per vivere appieno. Talvolta, aprire una via nuova serve a fermare le emozioni del momento, quelle che con la scalata non c’entrano nulla: le proiettiamo solo sulla roccia e lì vi rimarranno impresse per sempre. Parimenti, “restaurare” una propria via dopo tanti anni, ci aiuta a ravvivare i ricordi e rielaborarli con uno spirito diverso. Forse è per  questo che “Incubus” è ormai lontana e non esiste più, e la via di oggi è in buona parte nuova tanto da ribattezzarla: “Cinque giorni un’estate”. Il riferimento al capolavoro cinematografico di Fred Zinneman del 1982 non è casuale: è uno dei miei film preferiti di montagna, e anche lì vi si narra di emozioni, di segreti, di scalate, di tradimenti e di amori impossibili. Di estati che passano e lasciano un segno, piccolo o grande che sia. Tre, quattro, cinque giorni soltanto, non sono poi così diversi da soli sessanta metri di roccia. Eppure, in quei brevi e veloci percorsi di vita, ritroviamo volentieri noi stessi.