Nella primavera del 1942 sono andato per la prima volta in Val Rosandra. Settantanni fa.
Un momento drammatico della mia esistenza, nell’attesa della “cartolina rossa” che avrebbe scaraventato nell’orrore di una guerra non voluta, odiata, che ti obbligava a vivere in un incubo prolungato, inaridendo la giovinezza, speranza, futuro. Allora ti aggrappavi ad ogni cosa che poteva offrirti una possibilità d’esistenza.
Un compagno di tennis, allievo della Scuola di Alpinismo Emilio Comici, si era messo in testa di farmi provare l’arrampicata, dicendo che avevo il fisico adatto: forte di braccia, agile, leggero….
Avevo accettato proprio per la ricerca di sensazioni nuove, certo che la roccia avrebbe costituito per me un diversivo estemporaneo, come era stato per la corsa veloce, la boxe, il rugby. Un’attività sporadica, atta a riempire il vuoto e l’angoscia di qualche domenica mattina. Nulla di più.
Così ero andato in Valle, quella lontana primavera di settantanni fa. E la Valle da allora non l’ho più abbandonata. E quelle domeniche dedicate alle sue rocce chiare avevano costituito non certo un passatempo: ma una passione che strappava dall’orrore, dall’instabilità, dalla triste passività giornaliera: un motivo di fede, di amore. La settimana nell’attesa della domenica dove, nella piccola conca valliva in funzione della montagna, avrei trovato l’abbraccio con la bellezza della natura, cui aggrapparmi con passione disperata.
Un giorno, la domenica, che significava vita e amore. Non solo per la prassi ardente della scalata, per il gruppo di meravigliosi amici – i “Bruti”- con i quali condividevo il mito dell’arrampicata; ma per l’inconsueta, irripetibile bellezza di questa valle, piccolo scrigno di selvaggia, incontaminata bellezza, che si raggiungeva camminando in poco più d’ un’ora, e per quel giorno, per quella miracolosa domenica, avrebbe permesso di ritrovare se stesso, la speranza, la vita.
Appena giunto arrampicavo con i compagni lungo le erte paretine, i torrioni,le gugliette; poi,ci si ritrovava con le altre cordate al torrente, a divorare le strane, esigue provviste portate da casa. Ma specie per ristorarci tuffandoci nelle acque fresche di quel nastro d’argento che scorreva spumeggiando tra i varchi di rocce lisce, o s’adagiava quieta per una pausa magica in una vasca più profonda, racchiusa come perla preziosa tra il verde della vegetazione o il grigio delle rocce.
Poi, dopo la pausa, tornavamo a scalare con ansia disperata, perché il pomeriggio inoltrato, poi la sera, preannunciavano la fine di quella giornata d’ incanto, strappata all’orrore ed all’ansia della guerra incombente.
Talvolta, quando l’angoscia troppo forte non trovava sfogo neppure nelle salite più dure, scendevo al vecchio mulino per risalire da solo lungo il percorso incantato del torrente Rosandra. E questo itinerario ho continuato a seguirlo lungo tutto l’arco della mia vita, finché le forze e la salute me l’ hanno consentito.
E dopo, in questi ultimissimi anni, l’ho ripercorso con la mente e col cuore, nella dolce, nostalgica prassi della riviviscenza. Mai mi ha deluso. Sempre quando ho risalito così a ritroso il corso dell’acqua, ora tumultuosa, ora serena, che talvolta scorre diffondendosi in piccole vasche dalle curve dolci, e talvolta gronda spumeggiando tra gioghi di roccia polita dalle forme bizzarre, sempre l’ impressione e la gioia sono risultate intense; mai mi hanno deluso.
Perché la bellezza assoluta incanta sempre la mente e il cuore, quando la natura ti riserva il dono di poterla incontrare. Di poterla capire.
Di poterla amare.
Il fascino incomparabile del Rosandra! Penso ,nella mia non breve esistenza dedicata alla montagna ed alla natura, di non averne mai trovato di uguale! Per fascino, emozione, dolcezza.
Si parte dalla “Vasca storica” – chiamata così perché, più vicina al Rifugio e prima ancor al vecchio mulino, era già frequentata da Comici e dai suoi amici. E via via ci si inoltra lungo il tracciato scavato dall’acqua, sempre diverso, che ti sorprende – purtroppo oggi bisogna dire “sorprendeva” – con aspetti e visioni inattese ed inconsuete.
Ho già illustrato lo splendido itinerario in altri scritti, ma qui almeno voglio rammentare i momenti più salienti, gli ambienti più inconsueti di quel magico percorso. “La Gola”, strettoia prolungata tra alte pareti di roccia levigata che pare contenere a fatica l’acqua spumeggiante. La “vasca dei Bruti”, frequentata appunto nel primo periodo bellico da quel meraviglioso gruppo di ragazzi, racchiusa da alte pareti strapiombanti: due conche profonde riunite tra loro da un breve toboga.
La “Macchia Verde” ove il corso d’acqua si allarga ospitando nel basso greto inatteso un fitto gruppo di grandi alberi i cui rami si muovono dolcemente ai tenui soffi d’un veto leggero. “L’antro delle ninfe”, la vasca circolare più ampia di tutto il torrente,alimentata da un argentea cascatella, ma in un’ombra perenne che suggerisce antichi miti e leggende. Fino alla grande cascata, alta un aventina di metri che pare concludere con violenza dirimente il corso del rivo incantato.
Il torrente, fondamento di tutta la Rosandra, che da esso pare innalzi le sue pareti verticali in un anelito al cielo.
Il torrente, che l’ inscusabile, inutile, crudele, idiota violenza ha ora voluto distruggere, minando la base d’ un sito senza pari,sospeso come un miracolo tra l’ altipiano del Carso e la pianura istriana.
Andava proprio fatta questa pulizia dell’alveo ? Perché innanzi tutto il sindaco del comune di San Dorligo ha rifiutato l’offerta di un gruppo di abitanti della zona che si erano dichiarati pronti ad effettuare gratuitamente la rimozione delle ramaglie giacenti nel letto del Rosandra?
Ma no, niente incarico a privati che, proprio perché del luogo offrivano la garanzia di ben conoscere l’ambiente. Niente lavori fatti in casa con competenza e serietà: ma la richiesta dell’intervento con trombe e tamburi della cosiddetta Protezione Civile che ti sguinzaglia 200 volontari ignoranti e presuntuosi e trasforma la presunta “pulizia” in scellerata, inconcepibile, delittuosa devastazione, in orribile, assurdo scempio. Non occorreva essere Einstein per capire che gli alberi non devono mai essere tagliati in questa circostanze, perché proprio in caso di esondazione frenano e rallentano il deflusso delle acque. Che invece lasciate libere da ostacoli defluiscono con ulteriore forza e violenza. Alberi di alto fusto, rari, splendidi che conferivano particolare fisionomia naturale all’ambiente.
Bisognava davvero eseguire questa pulizia del letto del Rosandra? Ma allora, risultava indispensabile scegliere il momento adatto – visto specialmente che non incombeva certo nessuna urgenza. – E non predisporre il criminale intervento proprio nel periodo di nidificazione dell’avifauna e degli anfibi, la cui riproduzione appare adesso seriamente compromessa. Aggiungendo al brillante attentato all’integrità di un paesaggio natura unico al mondo, anche il merito di avere gravemente – se non definitivamente – inficiato il delicato equilibrio ambientale.
E cosa dire del camion che, per andare a caricarsi gli alberi abbattuti da trasportare in non tanto ignota e corretta destinazione, riesce con abile, elegante manovra, a distruggere alcuni gradini in arenaria costruiti tre anni fa con i fondi della Comunità europea ?
Val Rosandra, amata, illustrata dagli scritti di grandi autori (Giani Stuparich, Guido Devescovi) e dall’amore di sommi alpinisti (Bianca Di Beaco, Enzo Cozzolino)
Val Rosandra in cui ho accompagnato, artisti, attori, filosofi scienziati. Che hanno espresso tutti meraviglia ed entusiasmo.
Val Rosandra che ha arricchito la mia vita di scalatore e di uomo, cui per grata, infinita riconoscenza ho dedicato settant’anni di amore.
Val Rosandra, piccolo gioiello che la natura ha voluto regalare a Trieste e che la prosopopea sprovveduta, ignorante, becera di un potere cieco e demente ha voluto colpire nella sua base fondamentale e più preziosa: il torrente.
Dio voglia, nella Sua infinita bontà, ridarci quell’angolo di bellezza incomparabile che l’ignoranza, la stupidità, il sadismo dei nostri dissimili hanno senza motivo distrutto.
E nella Sua misericordia voglia pure perdonare agli autori inetti e mentalmente minorati lo scempio assurdo e delittuoso di cui si sono resi colpevoli.
Perché gli alpinisti, gli uomini, ben difficilmente potranno farlo.
Spiro Dalla Porta-Xydias
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