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25 Ottobre 2014

Senza categoria

Di nuovo “a casa”

La casa è il vostro corpo più grande. Vive nel sole e si addormenta nella quiete della notte; e non è senza sogni.
(Kahlil Gibran)

Le “montagne di casa”. E quali sarebbero ste montagne di casa? Per qualcuno sono quelle tra cui si vive tutti i giorni, paesaggi scontati di cui si crede di conoscere ogni segreto, tanto da diventare, alla fine, elementi del tutto ignorati. Per altri sono quelle da cui non ci si “schioda” mai, dove si conoscono a memoria le vie di salita e di discesa, dove farsi belli con gli amici, superando sicuri e magari slegati dei passaggi che appaiono aleatori e pericolosi. Conosco “alpinisti” che si vantano di essere saliti centinaia di volte su una vetta, scalando oppure con gli sci. E’ quasi diabolico, se non morboso. Direi addirittura noioso. Non si contano le occasioni in cui, nell’ambito di celebrazioni o di manifestazioni dedicate alla montagna, ho sentito decantare i trascorsi dell’“epoca d’oro dell’alpinismo” sulle montagne di “casa mia”. Con una nota di nostalgia, talvolta in odore di reducismo e camuffata da velleità storiografiche, si è posto un limite alla possibilità di inseguire “nuove visioni” e di scoprire quelle frontiere dell’avventura ancora possibili. Al contrario si è sostenuto che i presupposti per l’esplorazione siano ormai inesistenti. L’alpinismo ha ceduto il così il passo a un’attività di arrampicata di fondovalle dalle caratteristiche sportive o, al più, a una frequentazione della montagna dove “incognita” e “difficoltà tecnica” sono stati sostituiti da “tempi di salita” e da “corse” sulle solite vie normali. A ciò si aggiunga una malsana idea che la difficoltà e il rischio, fattori impliciti nella pratica alpinistica, siano disvalori da estirpare e bandire con ogni mezzo, mortificando la montagna con mezzi tecnici abbondanti e superflui, oppure scoraggiando le giovani generazioni di valligiani a seguire le orme di quei pochi fuoriclasse che hanno calcato la via dell’alpinismo esplorativo. Eppure, l’ho confessato più volte, anch’io sono tra coloro che guardano tra le “pieghe” apparentemente note delle montagne casalinghe. L’ho sempre fatto, però, con gli stessi occhi sognanti che avevo trent’anni fa, quando tutto mi appariva nuovo e avvincente, e nonostante la mia frequentazione di altri massicci montuosi, certamente blasonati, sia stata negli anni successivi quasi maniacale. E se abbiamo trovato ancora degli spazi d’avventura su queste “montagne di casa” non ostante vi abbiano operato in passato i più bei nomi dell’alpinismo occidentale, significa soltanto una cosa: che nei confronti degli “oggetti”, in senso estetico, non si avranno mai sguardi sufficientemente esaurienti. Accanto alla voglia di salire lungo nuove vie vi è inoltre la necessità di conoscere e di raccontare, condividendo le nuove esperienze che sarebbe limitante custodire troppo gelosamente. Questo è ciò che io intendo per “alpinismo accademico” e non necessariamente la mera ripetizione d’itinerari già tracciati, seppur duri e su montagne famose. Con questo spirito sono partito alla fine di agosto alla volta di una montagna che, pur per me, pareva non avere alcun segreto. Mi accompagnava Alessandro, giovane amico nel cui interesse “approfondito” per la montagna rivedo il me stesso delle origini verticali. Sulle pareti di quella montagna siamo saliti calzando gli scarponi e con zaini pesantissimi, inseguendo l’ignoto che si prefigurava oltre creste già percorse. Ne è uscita una via nuova e fascinosa, lungo uno sperone e un canalone di placche grigiastre (da cui il nome) che odora di “antico”. Non so se mai qualcuno ripeterà questo itinerario assai lontano dai canoni estetici dell’odierno alpinismo, e nemmeno m’interessa francamente. Ciò che conta è quello che noi abbiamo vissuto in quelle ore lassù, lontano dal mondo e dai pensieri, eppure sulle “montagne di casa”.
Alpi Graie Meridionali, Punta Clavarino 3260 m – versante sudest
“Via del Canalone Grigio”

Difficoltà: D- (qualche passo di V)
Dislivello complessivo: 1000 m
Prima salita: M.Blatto, A.Lolli

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