“La vita non è fatta di cose incredibili, fantastiche. E’ fatta di piccole cose, ma quando non chiedi l’impossibile, quelle piccole cose si trasformano in realtà eccezionali”.
Osho
Soltanto poche ore a disposizione. Oggi il sole fa capolino tra le nubi ma l’aria è piuttosto freddina. M’interrogo sul da farsi bouldering o free-solo? Scelgo una via di mezzo e raggiungo un salto di rocce dietro casa, alto una cinquantina di metri. Sono pareti che abbiamo frequentato parecchio agli inizi degli anni ottanta, su cui ho fatto le mie primissime esperienze da free-climber. Oggi, non ci viene più nessuno, nonostante le linee siano state addirittura attrezzate con resinati. Qui, ho fatto anche le mie prime salite senza corda, beneficiando della conoscenza di ogni centimetro di parete. La mia scelta cade su una linea che neppure fu presa in considerazione dal maldestro riattrezzatore ma che, di fatto, fu la mia prima “via nuova”. All’epoca in tutta la parete non c’era nemmeno un chiodo tradizionale e io, ricordo, non possedevo neppure le scarpette da arrampicata. Con l’amico Paolo Barillà avevamo individuato il punto più debole del settore lungo un sistema di diedri poco definiti e di placche, il tutto condito ovviamente da una notevole quantità di muschio e licheni. Materiale a disposizione: uno spezzone di corda di 30 metri, 2 chiodi, 2 moschettoni e 3 cordini. Dopo quella volta non vi sono mai più ritornato e, il muschio, 34 anni dopo a ben vedere è quintuplicato. La via è comunque facile, dunque attacco con tranquillità la lama iniziale, lottando al suo termine con un curioso rovere contorto che è nel frattempo cresciuto nella fessura. Il diedro successivo è angusto e scomodo: ricordo la fatica che feci per piazzare un chiodo con il mio martello da muratore, nel tentativo di proteggerne l’uscita. Le mie scarpette da pallavolo, allora, raspavano la roccia cercando un’aderenza impossibile. Salgo con cautela quel semplice IV+ curioso di vedere se il chiodo è ancora là. Gratto via dalla fessura dei cuscinetti di muschio umido spessi tre dita e, con stupore, vedo che il chiodo è ancora in posto anche se completamente corroso. Ora, con un passo nel vuoto, devo portarmi sulla placca a sinistra. E’ abbattuta ma piuttosto distante, ci devo quindi pensare un attimo prima di trovare la soluzione. Allora mi ci volle un buon quarto d’ora. Quartoppiù? E con le scarpe da pallavolo? Il passaggio, trentaquattro anni fa, in effetti mi parve parecchio difficile. Tuttavia in quelle primordiali uscite esplorative la mia autovalutazione tendeva al ribasso e consideravo il “quinto grado” come un traguardo ancora parecchio distante da raggiungere. Il “difficile”, specialmente in quelle condizioni di povertà d’attrezzatura veniva di conseguenza valutato tutto IV+ (!). Approdo sulla placca muschiata chiedendomi come avessi fatto a 14’anni a riuscire in quel passo azzardato. Continuo nella salita e raggiungo un altro piccolo rovere su cui, ricordo, avevamo sostato quella volta, poi proseguo lungo le belle e compatte placche terminali dove un ginepro cresciuto a dismisura mi crea qualche problema nell’aggiramento. Sono in cima. Quella via, allora, la battezzammo curiosamente “Santi s-protettori”, ipotizzando che su cotanta incoscienza “s-protetta” qualche santo locale ci avesse proprio messo la mano. La parete oggi completamente abbandonata a se stessa, è parte di quel microcosmo roccioso ormai dimenticata fatto di piccole e sbiadite storie verticali personali. Insignificanti per i più. Qualche volta fa bene ricordarsene per capire com’è iniziato il nostro viaggio. Per questo oggi ci sono venuto da solo.