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8 Marzo 2015

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Il legno conduce

Una tavola, cosa c’è di diverso rispetto a un crepuscolo lunare?
“Sotto uno stesso cielo a osservare la stessa luce”

Pensiero antico, ripetuto di eone in eone.
Seduti a sentir discorsi: lo stesso riflesso senza una volta, stellata o meno, attraverso il tempo.

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Il tema? Immersioni sotto il ghiaccio.
Il motivo: la domanda.

Chiedo ai miei amici perché loro siano qui, tra queste montagne, senz’aria sotto una coltre bianca, a veder il vero da sotto.
Domando loro un soprannome.

Nessun nickname, nessun motivo specifico. Una possibilità che s’incastra nel vento e genera un’occasione, uno squarcio nell’ordinario, una non-realtà che diventa vera e cicatrizza come ricordo, come oltre, ma brevimano.
Discorsi senza un percorso, parole come perle senza un filo a condurre un disegno.
Acqua gelata che non scende in alcun esofago, mentre l’irrealtà pensa a solidificare quel debito.

Eppure sono qui, con loro, ed è una speciale e magica compagnia. Effetto farfalla.
Ringrazio il caos di avermeli fatti conoscere, mi hanno arricchito.

Oggi due immersioni hanno scandito la giornata. Una guida, e Lavi ed io in cordata.
Seconda immersione al contrario, io a guidare, Peter e Lavi a seguire le mie cime.
Di questo sortilegio parleremo poi… nei prossimi giorni.
Ora, dopo il tuffo in acqua, seguo quello nell’onda dei ricordi.

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Veniamo al seguito: vasca al volo e su, un passo dopo l’altro sino in baita, piatti e bicchieri verso la buona regola del “mai bere a stomaco vuoto” o de “l’acqua fa la ruggine” e poi discesa a valle di notte in slittino, nel bosco, guidati dalla propria frontale e un insieme di sorrisi.

Poco prima passeggiata solitaria verso il confine austriaco.

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Ripenso a quand’ero bocia, l’ennesima volta, e ricordo il vecchio Grimod, dove festeggiavamo il cantico del nord e dell’inverno. Rimembro la tavola dello chalet di legno e quella di mio zio, in cui la pietra dominava. I miei occhi di piccolo, appena sbucati dal tavolo, quasi che il legno rimboccasse il piumone dei miei sogni.

Ascoltavo, sognavo, pensavo a quanto avrei voluto marciare anche io nel mondo dei titani, tra gli spiriti con cui loro parlavano.

Scalai quell’Olimpo, sacrificio dopo sacrificio, anno dopo anno, e quando arrivai in cima, non c’era più nessuno. Trovai solo il vento trasportante l’eco delle mie parole di bimbo, come la luce di una stella lontana, che vedi quando essa non c’è più.

Ho salito e asceso, esplorato e navigato, sino a trovare i miei stessi sogni, piazzati lassù un tempo, di nuovo parte di me. E ora cammino solo con scarpe piene di passi a me solo visibili, abbracciato da amici fraterni che non conoscono quel tepore, ma avvertono il calore che esso genera sulla mia pelle.

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Ancora una volta, ancora qui.

C’è la baita e ci sono le montagne, respiro spiriti e borbotti. Sono di nuovo solo all’ultima tavola della serata, ed essa riflette tutte le altre, e il suono dei bicchieri richiama ogni giaciglio, passo, fiamma, legno, sangue, fango e suono che sono stato.

Sono ancora qui, e ascolto la canzone, che non mi abbandona mai: la ritrovo nel sorriso di un bambino, nel bacio di un cane, nella carezza di un no, nel solletico di un si. Un vento freddo scivola dalla montagna e si adagia sul lago. E il silenzio culla quest’attimo.

…e come tutto era iniziato ora ogni cosa ricomincia: Scusami.
Scusami amico mio, grazie d’esser stato qui con me, ora devo tornare ad ascoltare.

Basta far rumore, ora parla la canzone.

 

Christian Roccati
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