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24 Aprile 2012

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"IL PASTORE CHE AMAVA I LIBRI"

È il titolo del nuovo libro di Italo Zandonella Callegher (Edizioni Biblioteca dell’Immagine) in libreria dal 20 aprile 2012 e la cui presentazione ufficiale avrà luogo presso il TrentoFilmfestival il 5 maggio alle ore 17, a cura di Mirella Tenderini.

Il libro narra la storia di un ragazzo nato e cresciuto ai piedi delle Dolomiti, montagne che ha visto fin dalla prima infanzia e dalle quali si è fatto stregare.

Il racconto è in terza persona e il protagonista si chiama Ial, acronimo formato dalle iniziali dei tre nomi di battesimo. Per farla breve: attraverso quelle pagine corre l’infanzia dell’autore, il battesimo all’alpinismo, alla lettura, alla conoscenza.

Tutto inizia a cinque anni con le prime “imprese” sulle ali della libertà. A sette scappa di casa per salire il Quaternà; a otto si ripete con la “scalata” solitaria, non proprio banale, dell’Aiàrnola, a nove si avventura da solo per il Vallón Popèra e poco dopo sale al Passo della Sentinella e poi fin quasi sulla Cima Undici dove sfugge per miracolo a una valanga mentre un gruppo di corvi famelici gli rubano pane e mortadella nonostante avesse affidato lo zainetto alla Madonnina del Passo che ebbe un attimo di distrazione!

Ial partiva da casa alle prime luci dell’alba, ufficialmente per cercare funghi e i genitori erano tranquilli. Ma i funghi non erano nei suoi sogni; lui oltrepassava il bosco, si avventurava sulla prateria montana, poi entrava nel regno delle rocce. 

Il suo sogno non era tanto quello di arrivare in cima a una montagna per il gusto della conquista, quanto giungere sulla vetta per vedere ciò che stava dall’altra parte. Èsempre stato il suo richiamo più forte: ammirare il mondo dall’alto, quello che si estende oltre la linea altalenante dell’orizzonte.

Nella prima decade di settembre la grande casèra di Rinfreddo chiudeva l’attività e le mucche rientravano dall’alpeggio scendendo in paese e ritrovando ognuna, senza l’aiuto del padrone, la sua stalla e il suo esatto posto di mangiatoia.

Dalla metà di ottobre le mucche di Ial, di norma due, salivano al tabiä d Bigaràn per un ulteriore mese di pascolo aperto. Ciò rappresentava un grosso risparmio di foraggio nella stalla di paese; l’inverno poteva essere lunghissimo e le bestie volevano fieno, non filò o le scuse dei poveri cristiani.

Quel vecchio tabiä, un fabbricato ottocentesco ancora oggi in piedi con montanara fierezza, era in comproprietà con lontani parenti e il più giovane di loro, peraltro 17 anni più grande di Ial, era un vero “maestro di pastorizia”.

I due passavano le giornate a leggere libri, ma soprattutto le “striscie”, cioè quei minuscoli fumetti, compatti, rettangolari che avevano nomi di fiaba: Sciuscià, Pecos Bill, Il Piccolo Sceriffo o il giornalino Il Vittorioso con Jacovitti che narrava le sue folli avventure farcite di tappeti e salami.

Beniamino invece (questo il nome del maestro-pastore) divorava le avventure di Tarzan e i libri di Salgàri ed era l’unico in paese a pronunciare quel nome in modo corretto, cioè con l’accento sulla à, e per questo deriso. Il tutto riparati dalla pioggia sotto un vecchio abete, Ial avvolto nella mantellina militare di uno zio, entrambi rosicchiando pezzi di pane e formaggio e bevendo latte freddo da una logora bottiglia nella quale navigavano sospetti grumi di burro.

Un giorno di pioggia, triste e cupo come tutti i giorni di pioggia dentro un fitto bosco di abeti, un rumore agghiacciante annuncia la tragedia; Bisä, la mucca migliore, la capo branco giudiziosa, la cara bestia mansueta, scivola sulla linfa di un tronco tagliato di fresco e va a morire in fondo a un burrone. Beniamino, terrorizzato, incolpò l’undicenne Ial che invece venne difeso da tutta la valle.

Oltre alle uscite in montagna per altre esperienze, ecco i primi amori infantili e puri come l’acqua dell’Aiàrnola. Mai corrisposti perché la bimba del cuore non ne sapeva nulla e per amare bisogna essere almeno in due mentre Ial era solo.

Poi le corse con la slitta e i guai conseguenti, le volate con il bob a quattro su strade proibite e la punizione dei carabinieri, le birbanterie da quattro soldi che univano i clan e li rendevano coscienti del bene prezioso della libertà e della disciplina di gruppo, le guerre con i fucili di legno e gli archi di salice e le frecce con i ferri degli ombrelli, il “pum pum, morto” sulle radure di Sturbìn, le “serenate celesti … e nulla più” alle piccole ospiti della colonia di Faenza, le imposte di tutto il paese accatastate in piazza, la diga sul torrente per farne una “piscina comunale”, il gatto paracadutista gettato dal tetto legato a un ombrello … e mille altre piccole, innocue esperienze che hanno forgiato un’esistenza. E poi montagna e montagna.

Non è, però, un libro di escursionismo o di alpinismo, né una ricostruzione storica di dolorosi fatti di guerra e neppure ricalca lo stile di “Due soldi di alpinismo”, per citare il bel libro di Gianni Pieropan. È, piuttosto, un romanzo scanzonato che approfitta della situazione e dello spazio a disposizione per presentare uno spaccato del mondo montanaro di sessanta anni fa, con le sue usanze, le sue abitudini, le sue credenze ancestrali, i suoi drammi dovuti alla seconda guerra mondiale, la sua moda agrosilvopastorale, la sua povertà dignitosa, la solidarietà e la semplicità, il lavoro febbrile che ha sempre caratterizzato la gente di montagna.

Il tutto non disgiunto da una vena umoristica genuina che l’autore ha volutamente inserito nel tentativo di rendere il libro più godibile, togliendo il peccato noioso dell’auto glorificazione che non avrebbe senso in un libro del genere.

È un testo, comunque, che rispetta la verità, così come si legge in apertura:
“Ogni riferimento a persone, luoghi e fatti è puramente reale”.

Se è riuscito a fare una cosa buona, o almeno diversa, lo diranno i lettori.

Italo Zandonella Callegher

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