Quest’oggi il cielo era azzurro e io camminavo veloce verso il centro storico di Genova per aggiungere un altro tassello alla mia formazione tout court. Quando il soffitto è di questo colore e lo si deve sostituire con quello banco della muratura, i piedi si fanno più pesanti. L’azzurro pesa sui piedi.
Ho impiegato del tempo per non perdere altro tempo, ne ho così poco nell’esistenza, non posso allontanarmi noncurante dallo scopo della mia vita per ignavia. Il tempo è uno spazio unilaterale ed etereo in cui interagire e materializzare la realtà.
Il tempo non ha massa, ma ha peso. Nel tempo galleggia la vita e atterrano le scelte.
Ho imparato e sono cambiato una volta ancora e, sulla via del ritorno, mi sono imbattuto nei tifosi usciti dallo stadio per la partita di turno. Marx asseriva che “la religione è la droga dei popoli” e, trascurando il fatto che in molti casi la droga è la religione dei popoli, il concetto originale mi par vero, se esteso a qualsiasi forma di controllo e condizionamento ben differente dalla religiosità.
Quasi riecheggia uno stralcio del film Matrix “le persone sono così assuefatte dal sistema che combatterebbero per difenderlo”. Come un sasso che ruota volando sulla corrente, così le mie sinapsi rimbalzano al film Nirvana “Sai qual è l’unica cosa che io non posso fare qui dentro? È smettere di giocare. Tu invece puoi farlo. Allora smetti di giocare. Se riesci a farlo vuol dire che sei libero”.
Il cielo oramai era quasi nero e il peso nei piedi svanito; camminavo controcorrente in un verso e molte migliaia nell’altro. Quando sono rimasto solo mi sono nuovamente sentito normale. La standardizzazione crea dipendenza e se te ne liberi, resti comunque un ex tossico, schiavo di un inutile bisogno indotto.
Prima di giungere alla mia auto, per lunghi chilometri ho guardato il carcere, rabbrividendo. Mi sono chiesto una volta ancora come si possa trascorrere parte della propria vita in prigionia, sapendo che le nostre cellule presto smetteranno di esistere per sempre, senza alcuna possibilità di riscatto. Poi mi sono guardato intorno; cataste di palazzi, muraglie di case a schiera o incasellate in compendi precisi e definiti. Respiravo una prigione più grande e terribile, una gabbia senza sbarre, per la mente. Un gigantesco alveare fatto di nulla, un vuoto che potregge il cervello dalla consapevolezza della morte e del non senso di bar, stadi, televisioni, e di tante altre cose, trappole per la vita che potrebbe scappare per essere impiegata, mostri fagocita tempo utile, succhia spazio per esistere.
Seduto nella mia vettura, illuminato di giallo, ho attivato il mio spirito, come in una competizione, e mi sono librato al ricordo, ho lasciato il mio corpo in cella, e la mia mente l’ho mandata nel futuro, la mia carne l’ha solo seguita.
Christian Roccati
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