Hans Kammerlander, uno dei più forti alpinisti dell’ultima generazione, lo definisce una “leggenda vivente”, eppure Kurt Diemberger stupisce e piace per la semplicità con cui si presenta. Ricordiamo che Kurt Diemberger – tra le numerose imprese alpinistiche effettuate, in molte delle quali ha effettuato anche splendi filmati – è stato il superstite di una disastrosa spedizione nel 1986 sul K2 in cui perirono 13 persone tra cui la sua compagna. Senza respiratori ha salito il Broad Peak con Hermann Buhl nel 1957, e il Dhaulagiri nel 1960.
D: Kammerlander – che apre con una prefazione il suo ultimo libro "Passi verso l’ignoto" – è l’espressione di una nuova generazione di alpinismo: proprio in questa prefazione dice che i "nuovi" alpinisti si sono spesso dovuti confrontare con Kurt Diemberger, perchè dove passavano lui era già passato: che cosa può dire invece, Kurt, di questa nuova generazione di alpinisti? e che consigli darebbe ai giovani che vogliono avvicinarsi all’alpinismo?
R: Ho notato una cosa: che come conseguenza dell’arrampicata libera e su pareti artificiali – che io penso sia una cosa utile e anche molto bella – cambia lo spirito con cui si fanno queste cose, e questo spirito diventa molto competitivo. E quindi anche in Himalaya, sulle grandi montagne, sia con le grandi che con le piccole spedizioni, compare lo stesso spirito che troviamo in parete artificiale: si fa a gara a chi è più veloce, a chi tocca il punto più in alto per primo, e tutto questo è contro lo spirito di un team, contro la collaborazione. Ecco, credo che questo spirito in Himalaya non si possa portare…
D: Lei è uno che ha amato la tecnologia nell’alpinismo, e in montagna in generale?
R: mah, io ho sempre cercato di andare nelle cose più semplici: sono andato sempre sul sicuro, altrimenti non sarei qui! Anche se devo ammettere che molte volte ho anche avuto fortuna, però se io oggi guardo le riviste di settore vedo che trovo pagine e pagine di nuove invenzioni tecnologiche, uno che veramente volesse provarle tutte dovrebbe provare tutto l’anno: un casco dopo l’altro, un rampone dopo l’altro, un moschettone dopo l’altro, e uno si dice “mamma mia come ero contento quando avevo semplicemente i miei vecchi chiodi Cassin! O quando avevo il mio martello con la testa piccola che dovevi imparare a non battertelo sul pollice! Oggigiorno non c’è più il pericolo di battersi il pollice perché le testate dei martelli sono molto più grosse, però se dai un colpo sbagliato si staccano…
D: Hanno detto di Lei: “Kurt è un uomo inossidabile, lui è un uomo che resiste sempre e a tutto…”; che cosa dice di questo?
R: Non sono proprio inossidabile, perché un po’ di ruggine la sento anch’io: solo due settimane fa sono stato a farmi due buchi nel ginocchio per tirar fuori un po’ di vecchia cartilagine e iniezioni per farne un po’ di nuova, insomma… devo dire che la tecnologia moderna aiuta veramente…
D: E l’anima? Quella è inossidabile?
R: [la voce più seria e profonda]: l’anima, quella va ancora bene, io nello spirito potrei ancora fare tutto!
D: Lei dice nel suo ultimo libro che “gli dei si sono rifugiati più in basso, sulle cime senza nome”; ma Kurt ha mai cercato gli dei sugli ottomila?
R: [una lunga pausa]: non dipende se sono ottomila o se non sono ottomila…
D: da cosa dipende?
R: dipende come arrivi, e con che spirito tu vai lì, perché se poi arrivano in troppi…gli dei fuggono…
D: e Lei è riuscito a trovarli, qualche volta?
R: sì sì, sono riuscito… ricordo quella volta che stavo in cima al Gasherbrum II, e sapevo dietro di me tutto quel mondo del Karakorum pieno di spedizioni, e davanti ai miei piedi c’era questo mare di cime senza nome, c’era la profonda valle dello Shaksgam, e là non c’era nessuno – e lo sapevo che non c’era nessuno, perché è difficilissimo arrivarci – e avevo questa sensazione di un richiamo dal basso: “Kurt, vai lì, questo è il tuo posto!”. Da allora sono andato lì – non senza difficoltà – diciassette volte e sotto una morena – nascosti – ci sono due barili: per la prossima volta! [ride]
D: un’altra cosa che emerge dal libro è Kurt cittadino del mondo: un uomo, un alpinista, che ha saputo fare alpinismo con genti e persone di tutte le nazionalità, ma che in particolare ha arrampicato anche con gli sherpa, in maniera forse diversa da quella con cui l’hanno fatto molti altri, cioè non utilizzandoli come portatori ma considerandoli come compagni di cordata…
R: è vero, ovviamente è necessario poter parlare, una conoscenza della lingua ci vuole; io sono andato con Navan Tenzin in cima al Makalu, me lo sono trovato come compagno anche all’Everest, ma non solo lui: penso ad esempio al nostro ufficiale di collegamento al Gasherbrum II, pakistano, lui era mio compagno di cordata…
D: che differenze ha trovato rispetto agli alpinisti europei, con questi compagni?
R: non lo so, non si possono fare categorie, ma quando sono andato in cima con i locali ho sempre trovato una grande reverenza in loro verso gli spiriti e verso gli dei, veramente hanno molto rispetto: ricordo una volta che volevo tornare sull’Everest, c’ero già stato con i francesi e volevo tornarci con gli italiani, avevo questo Navan Tenzin con me e lui diceva: “Kurt, non chiedermi di arrivare fino in cima, io ti accompagno e poi sull’antecima ti aspetto”…
D: Perché?
R: “Perché non voglio disturbare il Buddha della cima troppe volte”
D: E Lei?
R: Io ho detto: “Sì, quando andiamo su io ci vado, tu mi aspetti e io torno”
Intervista di Andrea Bianchi.
© Etymo gmbh-srl.
In parte pubblicata sul diario del 54° TrentoFilmFestival.
Wikipedia non ha ancora una voce "Kurt Diemberger": puoi crearla tu! >