Lavaronda, atto secondo.
Lo scialpinismo, un po’ come la mia vita: tanta salita, brevi discese e la sensazione di dimenticare sempre qualcosa. Come l’altra sera alla Lavaronda.
Ogni sport ha il suo rumore caratteristico. Quello dello sci alpinismo è il click dell’attacchino quando si appoggia lo scarpone nel puntale, si preme e via, si parte in salita. Ora immaginate 234 click nell’arco di pochi secondi, anzi 468, un click per piede: una mitragliata. E poi il brusio di altrettanto “strisciate” di pelli sulla neve a cui segue il silenzio. Ciò che resta della partenza della Lavaronda, è l’adrenalina scaricata sulle nevi trentine delle piste di Bertoldi, frazione di Lavarone, accomunata alla vista di un serpentone illuminato solo da sé stesso. Si perché ognuno di questi 234 skialper illumina con una pila frontale la propria anima gettata sulla neve. Ecco io sono uno di quelli che il serpentone lo ha visto e vissuto dal “di dentro”, perché a me piace così: le cose le racconto meglio se le vivo dalla pancia del gruppo. Certo, mi piacerebbe raccontare anche una gara olimpica dal “di dentro”, ma non si può avere tutto dalla vita. E questa è una vita che mi piace perché mi piace la gente che la trasforma in pezzi di emozione semplice semplice. Come il Lanfra, al secolo Pietro Lanfranchi, che incontro al bancone del bar nel dopo gara: vorrei offrirgli una birra ma tiene in mano un biberon vuoto.
«Scusi mi può fare un latte caldo?» chiede gentilmente al barista. Mentre scaldano il latte per il suo piccolo di diciotto mesi, l’orobico mi racconta di quanto a lui piaccia questo ambiente: «E’ ancora una piccola comunità, ci conosciamo tutti e l’atmosfera è sempre tranquilla». Parole semplici, da bergamasco umile che guarda il mondo con gli occhi della fatica, quella di andare in su il più velocemente possibile e di andare giù ancor più a manetta.
Oggi il Lanfra ha dovuto cedere il primo posto del podio a Michele Boscacci, suo “socio” in nazionale azzurra. Amici, amici sempre, ma non in gara. Tra loro in questa sera umida da equatore un divario di 51 secondi su un’ora di gara e mille metri di dislivello. Animali (domestici) da combattimento, (docili) bestie feroci. Io li vedo così: macchine progettate per alte prestazioni, ma che se devono bere una birra con uno sconosciuto non si tirano indietro (salvo un biberon da riempire di latte caldo).
E’ la mia seconda Lavaronda, anche se lo scialpinismo non è il mio sport di riferimento. Come Chatwin mi chiedo “Che ci faccio qui?”, e nonostante la seconda esperienza non ho ancora trovato la risposta. E allora gareggio. Alla fine della prima salita gli organizzatori mi avvertono che devo togliere le pelli: ci impiego un quarto d’ora. Nel senso che la sequenza dei movimenti non fa (ancora) parte del mio bagaglio: meccanismi che devo affinare, evoluzione che devo apprendere. Parto in discesa, nel buio della notte. La frontale anticipa con la luce dove infilerò gli sci. Mi devo fidare. Mi superano veri e propri discesisti: «Evidentemente non tengono famiglia a casa» penso tra me. In fondo alla discesa si frena e si rincomincia il circo: prendi le pelli, apri le pelli, metti le pelli, sgancia gli scarponi, gira la talloniera, aggancia gli scarponi, abbassa la luce, infila i bastoni. Un casino. Un mal di testa! Dimentico sempre qualcosa. Proprio come nella mia vita: c’è sempre un pezzo che lascio indietro. “Manca uno per far trentuno”, chissà cosa mai vorrà dire, ma è così. Via in salita, all’attacco. Lo scorso anno ai piedi avevo un paio di Seven Summits, sci da granturismo, oggi corro con i Dynafit PDG: dal giorno alla notte! Ecco bravo Brena, la notte. Spingo senza sosta, non mi fermo mai. Ne supero uno, poi un altro e un altro ancora. “No quest’anno non arrivo ultimo!”. Scollino e di nuovo la sequenza del cambio pelli. Me lo immagino qui il Lanfra, lui come un pit-stop da Formula 1, io come dal gommista: porto la macchina la mattina e la ritiro la sera.
Di nuovo giù verso Vezzena: Carlo Ceola nel briefing aveva dato la chiusura del “cancello” a un’ora e 15 minuti, e io passo a un’ora. Sono orgoglioso della mia prova fino lì. Lo dico anche ai volontari dello Sci CAI Schio, angeli nella notte. Uno di loro mi dice: “Bravo, dai che vai bene”. Bugiardo, l’avrà detto a tutti, però a me piace pensare che quella frase l’abbia pronunciata solo per me. Grazie anonima giacca verdegialla. Il giro di boa è fatto, ora si ritorna indietro. Togli le pelli, metti le pelli. Sgancia lo sci, aggancia lo sci. Chiudi lo scarpone, apri lo scarpone. Lo scialpinismo a cottimo.
L’ultima salita è un muro da scalare che accarezzo con il vapore del mio respiro. In cima mi dicono che è fatta, e che ora manca solo la discesa. Togli le pelli, piega le pelli, gira la talloniera, chiudi lo scarpone, tira il gancio, infila le mani nei bastoni. E via. “Fermoooo! Devi togliere anche l’altra pelle”. Che vergogna. Speriamo non mi abbia riconosciuto. La mia luce illumina il suo sorriso. Via via. Vado. A uovo. Posso dirlo? Si: che figata!
Le luci dell’arrivo, la voce di Paolo lo speaker. Corro e taglio il traguardo con un cinque alto di Carlo. La sera prima di addormentarmi pensavo a togliere le pelli, mettere le pelli. Sganciare lo sci, agganciare lo sci. Anche nei sogni faccio confusione.
PS: per la cronaca, Michele Boscacci e Francesca Martinelli hanno vinto la Lavaronda sulle nevi dello Ski Center Lavarone con i nuovi record della manifestazione. Due animali da Formula 1.
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