Alcuni anni fa mentre salivo la lunghissima valle del Tamur verso il campo base del Kangchenjunga nel Nepal orientale, pensavo che ambientare un racconto in un luogo simile sarebbe stato il massimo. Ma come? Cosa dire, cosa narrare che non risulti poi la solita minestra riscaldata? Il luogo è severo, quasi tragico, da meditazione. I pochi “monumenti” religiosi buddisti sono in rovina, l’ultimo monaco se ne è andato dall’ultimo villaggio qualche anno fa per non morire di fame, la fede è partita con lui, nessuno recita una preghiera, nessuno rimette in sesto i vecchi sassi con iscrizioni staccatisi dal muro mani. Sembra che nulla meriti attenzione!
La valle a tratti è ampia e solare, a tratti è chiusa, triste, ma unica, immensa, straordinariamente interessante. E lo è specie dopo Ghunsa, unico villaggio della valle, in stile tibetano, abitato da gente tranquilla di quella origine.
Sembra la solita frase del vecchio romanticismo, eppure fra queste montagne la mente si trastulla fra la realtà e la fantasia. Realtà di cime altissime e terribilmente difficili come lo Jannu, per esempio, alto 7710 metri, dove la predominanza del giallo sulla parete verticale mette soggezione come davanti al giallo della Civetta o delle Lavaredo; anzi, il doppio o il quadruplo, vista l’esagerata altezza della struttura che riduce le nostre Signore della dolomia a timidi nanerottoli. Fantasia per i disegni creati da stracci di nuvole che si rincorrono fino ad accarezzare la vetta massima del gruppo a quota 8586 metri, il terzo Ottomila della Terra, ovvero “I cinque forzieri della grande neve”.
È questo, infatti, il significato di Kangchenjunga (localmente Kangchendzönga dove: kang = neve, chen = grande, dzö = forziere, nga = cinque). Secondo alcuni studiosi il nome può essere attribuito sia alle cinque vette maggiori che ai cinque ghiacciai che avvolgono il massiccio.
Dunque: per questa valle salgono tempo fa due giovani alpinisti veneti, un ragazzo triste, deluso e sognatore; una fanciulla determinata che sta facendo questo trekking d’alta quota nello stile, sembra, tanto caro a san Bernardo: «o beata solitudine, o solitaria beatitudine» nell’esaltazione della perfetta serenità spirituale che si trova nel silenzio e nell’isolamento. Il desiderio intenso di pace e di quiete nella solitudine.
Lui è lì per dimenticare un matrimonio fallito, lei probabilmente “sta cercando se stessa”, come si suole dire. Il destino li fa incontrare ad Amjilessa, una casa tibetana solitaria, alta sopra il fiume, a metà costa di un ripido pascolo dove una famigliola si dedica all’allevamento di una ventina di yak che le permette di vivere in modo decoroso, quasi signorile rispetto alle altre famiglie incontrate lungo il cammino. Ne fa testo una ragazza, che è la figlia maggiore, bellissima, alta, magra, di quelle che se la porti a sfilare a Milano diventa subito un caso da salotti tv.
L’incontro fra i due veneti non è esaltante. Tuttavia decidono di proseguire insieme e, nel lento trascorrere delle ore e dei giorni lungo la salita che si fa via via più ardua, si conoscono, diventano amici… A Pang Pema sono già qualcosa di più…
Un bel trekking d’alta quota diventa la molla per una convivenza in patria, tra arrampicate dolomitiche esaltanti, amori travolgenti, e infine tradimenti inconfessabili fino alla rottura, appesantita da rancori e vendette.
La ragazza cerca il delitto perfetto, spinta, aiutata in questo progetto dall’amante, provetto arrampicatore, istruttore di alpinismo, soccorritore… L’idea è geniale, pare che nulla possa fermare i due, la disgrazia in montagna è sempre possibile, è sempre esistita, la morte può arrivare da un momento all’altro, e i testimoni non ci sono… I due sanno che ciò potrebbe già essere successo… E la colpa è andata alla solita montagna assassina che non c’entra proprio nulla !!!
Il finale non può essere qui raccontato perché diventa quasi un giallo e questo tipo di scrittura non va divulgata così su due piedi…
L’editore (Alpine Studio) offre il suo suo commento:
«Finito il fantastico viaggio nelle mitiche valli del Nepal – che l’autore descrive per diretta conoscenza – i due giovani ritornano in Italia e formano una forte cordata. Ma il vecchio moroso della ragazza riprende i contatti e la spinge a trovare una soluzione…»
La troveranno!
«Un libro di montagna dal taglio insolito, dove le belle e solitarie guglie dolomitiche fanno da sfondo ad una storia straordinaria di intrigo, complicità, amore e riscatto.»
Il finale è di pura fantasia ed ogni (im)possibile riferimento è puramente casuale. Però… chi ci dice che qualcosa di simile non sia veramente già accaduto tra gli anfratti coperti di nebbia di qualche montagna sperduta in giro per il mondo dove neppure il corvo dal becco giallo e dalla vista acuta è riuscito a vedere?
Italo Zandonella Callegher
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