“Si provi a pigliare una valle, a visitarla per bene da conoscerne i più remoti meandri, a non lasciarla fino a quando tutto lo studiabile non sia studiato, sviscerato, messo in luce, e si vedrà che del nuovo, del bello, dell’utile ne verrà fuori ancora, assai più che non si creda.”
Luigi Vaccarone
Dal lontano giorno in cui presi in mano quel bollettino del Cai datato 1887, ho assunto come un vero e proprio “credo” le parole di Vaccarone, alpinista visionario in un’epoca in cui l’esplorazione di certi gruppi montuosi minori risultava del tutto da compiere. La parete terminale della Val Grande era lì in tutto il suo selvaggio splendore, una frontiera ignota anche ai montanari che guardavano con diffidenza questi cittadini borghesi desiderosi salire per diletto quelle cime “maldittés”.
E cent’anni dopo, ancora, i nostri nonni ci guardavano stupiti e con sufficienza quando volevamo ficcanasare tra le pieghe di quelle rocce vertiginose, alla ricerca di ancora un po’ d’ignoto, inutile e pericoloso per loro che le avevano appena sfiorate per necessità. “Nous sèn allà en mountanhi par bousougn e gnit par d’autu, diférant à li fol däl rotchéss ou li piait allà à schiapàse lou muòrou!” Ovvero: che loro in “montagna” ci erano andati per necessità, mentre ai “matti delle rocce” piace andarsi a rompere la faccia (su qualche pietra). Come non dargli torto quando si tornava a casa ammaccati o con qualche bruciatura causata da non voluti scivoloni sul nevaio. Ma quando qualcuno non tornava affatto, allora ricordo solo un religioso silenzio ed un dignitoso cordoglio tipico della gente di montagna.
Ma poi i giovinastri ripartivano perché, in verità, avevano ormai irrimediabilmente respirato la stessa “aria” del Vaccarone, lassù…
Così, ogni volta che anch’io sono tornato tra quelle vette le ho potute “vedere” con occhi diversi, convinto più che mai che il “grande alpinismo” è alla fine un concetto assolutamente relativo, che nutrirà pure le pagine delle riviste creando miti e celebrità, ma che per qualcuno coincide semplicemente con il sogno di vedere nella montagna un tratto di percorso della propria esistenza, individuale e irripetibile.
E per questo non servono affatto le grandi montagne e i gradi estremi. Contano piuttosto i momenti irripetibili che possiamo vivere, per esempio, toccando un appiglio per la prima volta nella storia millenaria di quelle rocce.
Oppure lo stupore che si prova a guardare una parete, per una volta, semplicemente con occhi diversi, scoprendo una possibilità nuova che era rimasta celata ai nostri occhi come in uno stereogramma.
Certo, i nonni ancora non capirebbero, ma chi può veramente comprendere cosa passa nella testa di un matto?
Le mie vie nuove nella testata terminale della Val Grande di Lanzo:
Cime di Piatou 3297 m – pilastro sud – est 1991
Punta Francesetti 3450, diretta al pilastro sudest 1993
Punta Luigi Clavarino 3260 m “diretta alla parete E” 1996
Dent d’Ecot 3402 m parete NO del Corno delle Placche 2000
Monte Malatret 2718 m parete NO 2001
Punta Rossa di Sea, parete nord, couloir “Asso di spade”
Dôme Blanc du Mulinet 3387 m gendarme SE o “Sperone Girardi” 2002
Albaron di Sea 3262 m pilastro nord-nordest 2004
Colletto Bramafam 3290 m goulotte est 2005
Cima di Monfret 3337 m, parete nord, via nuova in invernale 2006
Dent d’Ecot quota 3082 parete NO 2006
Quota 2650 m della Cresta sudovest della Cima di Leitosa, parete ovest 2007
Quota 2833 m della Leitosa, spigolo NO 2007
Cima di Leitosa 2870, parete NO “I bastioni di Maracaibo” 2010
Cima di Leitosa 2870 m parete ONO goulotte “Invidia locale” 2010
Dent d’Ecot 3402 m, Il dado parete N Via “Marco Fassero” 2011
Il mio libro, che racconta le imprese dei “matti delle rocce”