Vi proponiamo qui la seconda parte del racconto “Il Misterioso Pamir“.
(Parte I)…Eravamo in sei ad avanzare nella bruma, grigia come il fumo di Londra. Giunti, almeno così credevamo, nei pressi dell’inizio della cresta rocciosa, ci fermammo perplessi. Dov’era ‘sta cresta? Da che parte stava? A destra? a sinistra? davanti? Bussola non avevamo e non sarebbe servita granché; la visibilità era zero e la direzione era nota, ma con o senza bussola la cresta non si vedeva. Pensai che i compagni si aspettassero da me una decisione seria; ero o non ero il capo spedizione? Sì, ma ero anche un povero peccatore senza doti taumaturgiche. Ci fermammo sfiduciati, seduti nella neve, stanchi e pensosi, senza riparo dalla bufera. Ognuno sperava che l’altro dicesse: “Andiamo di qua; la discesa è lì, ne sono sicuro”. Invece niente. Nessuno parlava. C’era ben poco da dire. In questi casi è meglio tacere perché qualsiasi cosa dici di insicuro o di ovvio ti fa rischiare una carezza di piccozza in testa.
Non restava che piangere. O pregare.
E fu proprio così! Recitai mentalmente una preghiera. Una di quelle che mi avevano insegnato a Milano i Salesiani di don Bosco e che si adattava a pennello a questa situazione. Che c’è di strano (per uno che crede) chiedere un favore a un Santo per sei disgraziati che si trovano a 6350 metri, su una montagna in capo al mondo, e non sanno più dove andare? In fondo stanno solo cercando una cresta, mica un pozzo di petrolio o un forziere pieno di monete d’oro! E i Santi stanno lassù proprio per intercedere e per aiutare gli umani bisognosi. Pazienza se i miseri erano alpinisti andati in cerca di guai per soddisfare la loro passione. Se don Bosco era impegnato in cose più importanti, pensai, ci sarà pure un altro santo in “pronto soccorso”. Poteva andare bene anche un beato o un venerabile, meglio se ex alpinista e con delega. Fra noi ci si aiuta, no! perbacco!
Strano! Ma io – piccolo meschino alpinastro senza meriti – fui esaudito.
All’improvviso una folata di vento più forte delle altre squarciò la nebbia. Il fenomeno durò due secondi, non di più, ve lo garantisco. Poi tornò quasi buio. Ma in quei due secondi vidi chiaramente, proprio sotto di noi, la “nostra” cresta serpeggiante fra le pareti di ghiaccio, quella che sprofondava fino al varco con il monte di 6150 metri che avevamo già salito due volte e conoscevamo bene. Era la via giusta. Di lì dovevamo passare. E passammo. Decisi e sicuri fino alla base della cresta. Ma non finì qui!
Più in basso, sui 6100 metri, oltre la seconda cima, si allargava una ripida parete fortemente innevata, evanescente, spettrale, pressoché invisibile a causa della nebbia e del nevischio. Sapevamo che lì si aprivano dei profondi crepacci, già scorti in salita, ma evitabili con qualche zig zag. Seguimmo con attenzione e un po’ di apprensione le tracce di qualcuno che era sceso prima. Tutti passarono bene e io chiudevo la fila. La pista era ripida, ma logica, ben tracciata, senza segni di crepacci.
All’improvviso mi sentii sprofondare senza avere il tempo di dire neppure una giaculatoria. A causa del peso di troppe persone transitate si era aperto un crepaccio proprio sotto di me. D’istinto allargai le braccia che fermarono la caduta perché la crepa correva da monte a valle. Se fosse stata trasversale ci sarei finito dentro a braccia aperte come una croce. Ora il corpo stava nella voragine dal torace in giù; il resto era fuori, protetto dalle braccia aperte a mo’ di aliante e dallo zaino i cui spallacci quasi mi soffocavano. Con la forza della disperazione mi tirai fuori. Si staccò anche un rampone, ma non lo persi. Ero salvo seppur ansimante a causa dello sforzo e dell’alta quota. Non vedevo più i miei compagni. Nessuno si era accorto di nulla. Potevo morire nel modo più stupido e nessuno mi avrebbe più trovato. Si sarebbe parlato di sparizione misteriosa e amen. Pensai subito alla novella araba del servo e del suo appuntamento con la morte a Samarra. Evidentemente la mia Samarra non era in Pamir…
Scendemmo guardinghi, vincemmo un’altra ripida parete ghiacciata con l’aiuto delle corde fisse, trascurammo il campo uno e ci portammo al campo base sotto un diluvio universale.
Questa storia è vera in ogni minimo particolare, senza aggiunte fantasiose visto che sull’argomento c’è poco da scherzare. Naturalmente ognuno è libero di dare l’interpretazione che vuole. Io non lo faccio. So come sono andate le cose, so che è successo e ciò mi basta.
Dimenticavo: fra i sei “nella nebbia che si squarciò” c’era anche mio figlio Diego, allora minorenne, che fu premiato dalla Federazione Sovietica come il più giovane alpinista giunto in vetta a quella grande montagna.
Italo Zandonella Callegher
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