Alto, fisico atletico, robusto, capelli neri, a caschetto quando rimangono in posa, barba incolta, sguardo dolce ma sicuro e profondo, due mani grandi capaci di afferrare anche i più piccoli appigli, mani tenere che sanno accarezzare e abbracciare.
Elio Orlandi, nato a San Lorenzo in Banale nel 1954, è il prototipo di quella razza di trentini dediti alle proprie occupazioni, umili, poche parole, tanti fatti. È una costante, nel corso degli anni, aver conosciuto molti di loro e aver scoperto questo carattere di indole buona, disponibile, aperta. Ed Elio, quello che oggi si può considerare uno dei massimi interpreti e protagonisti dell’alpinismo patagonico, incarna proprio il carattere tipico di questa gente.
Il padre malgaro è stato il primo a forgiarlo, a fargli comprendere il valore delle cose, come guadagnarsi il pane con la fatica, fare rinunce e a insegnarli ad amare la propria terra. Egli non gli ha lasciato in eredità solo la vecchia casa paterna inserita in un specie di borgo antico isolato, silenzioso, impreziosito da testimonianze di un architettura rurale di grande duttilità e bellezza, in un paese di montagna che è una sorta di balcone panoramico sulla valle sottostante, no, egli è stato un maestro come pochi se ne trovano ancora.
Il giovane Elio si è fatto le ossa aiutandolo nel portare carichi pesanti in su e in giù per le montagne, a fare formaggi – il padre aveva pure un caseificio che forniva tutto il paese – e poi, quando era ora di imparare un mestiere e andare a vivere e studiare a Trento geometra, è andato avanti solo fino al quarto anno. Avrebbe voluto finire, ma in mezzo c’è stato il servizio militare e poi il bisogno del padre del suo aiuto, così per un bel po’ di anni, seppure non diplomato, ha lavorato come disegnatore tecnico in uno studio. Ma quella stanza gli stava troppo stretta per i suoi sogni di libertà e grandi spazi, per il suo stare e vivere con e nelle montagne.
I passi di Elio verso le ardite altezze delle vette patagoniche non potevano partire che dal tintinnio delle gocce della vecchia fontana di casa. Come un battesimo, là, dove la stradina sotto portici sfila gli ultimi agglomerati, la via obbligata conduce verso la Val D’Ambièz, sotto un anfiteatro di cime che Elio, non appena cresciuto un po’, non poteva fare a meno di salire, una per una, lungo creste e pareti.
Non si contano le ripetizioni e le aperture di vie nel Gruppo del Brenta, come pure le salite sulle Dolomiti e le Alpi Occidentali, ma quello che di lui impressiona sono le molte vie aperte durante le sue numerose ascensioni sulle grandi pareti in giro per il mondo, ed in particolare in Patagonia dove è tra i maggiori esponenti dell’alpinismo internazionale.
Molte le ripetizioni e le vie nuove sulle principali pareti patagoniche: Cerro Torre, Torre Egger, Cerro Sthanardt, Fitz Roy, Torre Centrale del Paine, Torre Nord, Torre Sud; vie difficilissime, in stile alpino, su pareti verticali, con linee il più possibile dirette. Molte di queste avventure appaiono in film come “Magico Est”, “Cuore di ghiaccio”, “Cerro Torre, nord e ancora nord…”, “Patacorta”, “Linea di Eleganza”, “Oltre la parete”, “I colori delle Emozioni”, lavori con i quali cerca di trasmettere la grande passione per la montagna e l’alpinismo, volendo approfondire una ricerca professionale mirata alle particolarità delle immagini riferite al fascino dell’ambiente e dell’avventura vissuta sulle grandi pareti.
Ma parlare di Elio Orlandi, guida alpina, di professione disgaggiatore – opera con altri due soci in una ditta dedita alla manutenzione e messa in sicurezza delle pareti lungo le arterie stradali – alpinista patagonico a tempo perso, senza dire del suo carattere mite e ad altruista, del suo mai prevaricare sugli altri, della sua sensibilità e poesia che lo hanno portato alla realizzazione di splendidi film di montagna, alcuni premiati in diversi festival internazionali, sarebbe riduttivo.
Di lui, alpinista atipico, colpisce, la creatività, la vena artistica, la grande sensibilità. Da giovane si dedicava alla pittura ad olio con rappresentazioni oniriche, surreali, fantasiose, oggi si dedica più ai film, la fotografia e qualche hanno fa si è tolto lo sfizio di realizzare un modello del Cerro Torre, scolpito nel legno, in scala 1:500 che misura circa ml 1,70 x 1,30 di base per un’altezza di ml 3,15 e con tutte le vie che lo percorrono.
Ricordo ancora quella volta sul Campanile Basso, quando, accortosi che la cordata che ci precedeva era in difficoltà, senza che qualcuno gliel’avesse chiesto, prima mi consultò sul da farsi e poi si propose per aiutarla tirandola fuori da seri impicci.
Elio, nonostante il suo curriculum da formidabile alpinista che potrebbe vivere di sponsor e serate, è ben lungi da questi condizionamenti, e rimane un uomo libero, che lavora, va in montagna, vive la sua avventura con la maiuscola e la racconta nei suoi film.
Colpisce di lui la grande disponibilità, la sua umanità, il rapportarsi con gli altri mettendosi sempre sullo stesso piano, mai uno scalino più in alto, lo scegliersi i compagni d’avventura, non tanto perché i più forti per poter realizzare iperboliche ed impressionanti vie, ma prima di tutto per poter vivere prima una grande esperienza umana di crescita comune.
Elio è quel che si dice un gigante buono, un uomo che non ha mai dimenticato la sua terra, le sue origini, la sua gente, i valori veri che valgono in ogni parte del mondo. È per questo che ha messo sempre al primo posto l’uomo piuttosto che la mèta, l’amicizia e i compagni al successo e la notorietà. Il film “Patacorta”, che ha dedicato all’amico ottantenne Cesarino Fava, ne è un grande esempio. Un omaggio al piccolo grande uomo – oggi, dopo la sua morte, deriso e beffeggiato da qualcuno che si crede depositario di ogni la verità – punto di riferimento per molti alpinisti che intraprendevano la via delle montagne patagoniche e che Elio, per girare il film, ha voluto portare lungo una via di grado 5+ aperta da lui.
Ecco, è questo modo di essere, questa bontà e semplicità, questa ricerca di bellezza e poesia, così sconosciuta a tanti altri protagonisti della montagna, che fa di Elio un signore, un uomo da ammirare.
Chi ti ha fatto nascere la passione per la montagna?
Sono figlio di un contadino di montagna e nella mia adolescenza le estati si passavano lavorando nelle malghe e nelle baite per il fieno. La fatica della montagna mi è sempre rimasta dentro e credo mi abbia anche molto aiutato a formarmi fisicamente e predispormi all’alpinismo. Per una famiglia come la mia toccata duramente dalla sorte, la sostanza delle cose semplici era l’unica certezza di sopravvivenza, una certezza fatta di duro lavoro, di molte rinunce, di fatiche e sudore e di sobria ma dignitosa povertà: non c’era proprio spazio per le futilità. Ricordo le mie prime scalate con mio padre su e giù per i ripidi sentieri, le cenge per recuperare anche quel po’ di fieno caduto dalla teleferica, le balze rocciose che portavano ai masi per la fienagione ed agli alpeggi per accompagnare al pascolo le nostre bestie che, in quegli anni, erano la nostra unica fonte di sostentamento. Tra le tante cose ricordo soprattutto le lunghe scarpinate fatte anche di brevi prime emozionanti scalate su alcune cime della Val d’Ambiez.
In un tuo scritto si leggeva tra le righe quanto è stata importante la figura di tuo padre nell’infonderti valori legati alla terra.
Devo riconoscere che il primo vero maestro di vita e di montagna è stato mio padre, con la sua semplicità e dignitosa umiltà. Tra le altre cose mi ha insegnato che bisogna tenere buona memoria del passato per guardare con più fiducia e serenità al nostro futuro.
Quando hai iniziato ad arrampicare?
Quasi per scherzo con un gruppo di amici, ma la prima volta non andò molto bene. Avevamo troppa esuberanza giovanile, molta curiosità e voglia di conoscere e provare nuove emozioni, un infinito entusiasmo e una forza esplosiva, però di contro disponevamo quasi di niente, eravamo poveri di tutto, di materiali, di attrezzatura, di soldi e di esperienza. La nostra incoscienza ci portava spesso a rischiare oltre i nostri mezzi e possibilità, però col senno del poi, anche qualche batosta è servita per porre un freno alla nostra irrefrenabilità iniziale, a comprendere e a conoscersi, aiutandoci anche a riflettere sui valori della vita e se ne valeva proprio la pena prendersi tutti quei rischi.
Quali sono stati i tuoi primi maestri?
Inizialmente non ho mai avuto un vero maestro in senso alpinistico o un preciso esempio di riferimento. Il nostro entusiasmo e poi la passione ci portava a ricercare le nostre emozioni autonomamente in gruppo con amici e talvolta anche da soli, individualmente. Tutto ci era nuovo e da apprendere direttamente a contatto con l’avventura sulla roccia. Ogni tanto si scambiavano impressioni e pareri con altri che s’incontravano su e giù per le pareti, cercando di captare tutto ciò che pareva riempire di conoscenza la nostra inesperienza.
Se posso però esporre una mia considerazione, uno dei primi grandi alpinisti che, tra altri, ho conosciuto inizialmente durante il mio percorso di formazione alla montagna, è stato Sergio Martini, del quale nutro ancora oggi grande ammirazione non solo come alpinista, ma soprattutto come esempio di uomo vero, bravura, sobrietà, equilibrio e modestia.
Tu per lavoro sei sempre con le mani sulla roccia, ma dici di non allenarti mai specificatamente. Come fai?
Da quando ho iniziato a mettere mani e piedi sulla roccia, dentro di me ho sempre cercato di fare abitare il bisogno della creatività e ben presto mi sono anche reso conto che con l’esperienza acquisti capacità, sicurezza, qualità, e poi ti si presenta pure la possibilità di conoscere nuove realtà e vivere profondamente la passione dentro te stesso e di condividerla anche con i migliori amici.
Personalmente preferisco stare in un grande ambiente ed accontentarmi di un grado in meno piuttosto che limitarmi ad un solo passaggio al massimo grado che il più delle volte impone troppo spreco di energie, tempo e concentrazione, talvolta restringendo pure creatività e fantasia. Allora così prediligo vivere ogni tipo di esperienza di vita e le mie libertà in senso assoluto ed essenziale sempre accompagnandole con il gusto della ricerca, circoscrivendo ogni tipo di condizionamento e, per quanto possibile, non farmi addomesticare dal sistema e dalle tendenze. Una vera passione prima la si può scegliere e poi andrebbe portata fino in fondo possibilmente con spirito libero ed in armonia con se stessi e gli altri; tutto questo sempre cercando di non divenirne poi schiavi, ossessionati dagli allenamenti e dalla forma fisica, limitati nello specifico o fanatici della propria stessa passione.
Perché così forte il richiamo della Patagonia?
I grandi spazi mi attraggono come pure mi affascina il senso di libertà e quel soffio d’indipendenza mentale che mi sento dentro quando vado per i monti o mi arrampico per le pareti, e l’ambiente della Patagonia mi ha subito affascinato, da quando ci sono stato la prima volta, per i suoi grandi spazi e le immensità che impongono rispetto e quasi soggezione, oltre che per l’essenziale estetica, la bellezza e l’imponenza delle montagne. E mi è tuttora improbabile rimanere insensibile a quel fascino verticale dagli orizzonti infiniti…
E le Dolomiti e le altre montagne?
Esiste sempre un profondo legame tra un uomo e la sua montagna che può generare quel sottile richiamo di predilezione reciproca che si manifesta negli spiriti più sensibili e tutti noi abbiamo un nostro luogo preferito, un posto segreto, una parete amica, un riferimento sicuro dove sia sufficiente anche solo immaginare di materializzare qualche nostro sogno verticale.
Nel mio caso da sempre mi ritengo molto fortunato di vivere ai piedi delle Dolomiti di Brenta ed è naturale che qui stanno le mie preferenze, però la sete di conoscenza mi ha portato, soprattutto nei primi anni di attività, a maturare molte altre varie esperienze sulle pareti dei vari gruppi dolomitici, delle alpi occidentali e centrali,
Non hai mai pensato all’Himalaya?
Ci sono stato un paio di volte e non è detto che prima o dopo ci tornerò ancora, anche se preferisco quella libertà di azione e di indipendenza mentale dal sistema burocratico che offre la Patagonia.
Nel 1991, con Giarolli, Sarchi e Ravizza, sul Baghirati ci siamo beccati il terremoto in piena parete. Per fortuna l’estrema verticalità ci ha salvati dal venire spazzati via dalle scariche che intorno a noi cambiavano l’ambiente, poi durante il ritorno ci siamo resi conto anche della gravità: nei paesi della valle aveva fatto più di tremila vittime. Tragedia aggiunta alla miseria…
Di recente invece, con Leoni, Larcher e Cagol, dal K7 in Karakorum, ci siamo portati a casa una gran bella esperienza vissuta in senso completo sia dal punto di vista alpinistico con un buon risultato, che soprattutto sotto l’aspetto umano della conoscenza e dell’amicizia.
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