In famiglia anche tua moglie si dedica alla montagna, è stata per anni il gestore del rifugio Altissimo del Baldo e Cacciatore in Val Ambiez, sei tu che l’hai ammaliata?
Anche Nora credo ha sempre avuto dentro un innato richiamo alla montagna. Certo è innegabile che anche l’amore abbia fatto la sua parte e difatti anche lei, fin quando gli impegni di gestione e poi soprattutto la famiglia sono divenute una scelta obbligata, era venuta varie volte in Patagonia, specialmente durante le prime avventurose esperienze.
Fra i periodi veramente magici che ancora oggi mi piace ricordare, è la straordinaria solitudine che abbiamo vissuto sul finire del 1985. Quasi un mese completamente soli ed isolati dal mondo in uno dei luoghi purtroppo oggi paradossalmente tra i più frequentati della Patagonia: il campo base delle tre Torri del Paine. Allora non esisteva neppure una baracca di vecchi tronchi e ci riparavamo dal maltempo sotto una semplice copertura di fortuna fatta con frasche e ramaglie di “lenga”, riscaldandoci al fuoco di un rudimentale focolare di sassi. Ci eravamo veramente immersi nella magia della foresta patagonica, respirando la poesia del bosco e del fuoco e vivendo l’adattamento essenziale alla semplicità ed alla solitudine. Solo verso la fine persino il guardaparco, preoccupato che fossimo morti o dispersi per la lunga assenza, si fece vivo per sincerarsi se eravamo ancora sani, portandoci il graditissimo omaggio del pane fresco fatto in casa da sua moglie.
Cosa ha rappresentato per te Cesarino Fava? Che rapporto avevi con lui?
Cesarino mi ha insegnato che non ha importanza la fama di un alpinista o la grandezza delle sue imprese. Importante è invece quello che di grande e profondo una persona, qualunque persona, riesce a comunicare, insegnare e trasmettere con il suo modo di essere e di fare.
Mi hai commosso quando al Festival Internazionale della Montagna città di Trento, hai detto che, come da desiderio le sue ceneri errano nel cuore del Cerro Torre. È stato un suo desiderio?
Tutte le volte che fra amici si iniziava a parlare di Patagonia a Cesarino s’illuminavano gli occhi. Se poi l’argomento si chiamava Cerro Torre o Fitz Roy, subito trapelava evidente anche il trasporto affettivo. D’altronde, lui era stato uno dei pionieri e da sempre considerato un riferimento per la conoscenza dell’ambiente e delle pareti della Patagonia, e ricordo una delle sue ultime frasi che mi è rimasta dentro: “mi sarebbe tanto piaciuto ritornare al Colle della Conquista”. Quindi accogliendo anche il desiderio dei figli di portare le ceneri di loro padre in cima al Torre per affidarlo al vento, l’anno scorso, con l’amico Fabio Giacomelli, per ora lo abbiamo lasciato a godersi la sua Patagonia in uno dei posti più belli al mondo e dove anche lui sempre avrebbe voluto essere: nel cuore del Cerro Torre. In centro alla sua parete est stiamo cercando di realizzare una grandiosa via che a breve speriamo di concludere direttamente in vetta e così concretizzare anche il grande desiderio di Cesarino.
Qual è la tua opinione sulla vicenda Cerro Torre, rilanciata in questi ultimi anni?
La verità assoluta diviene fragile quando si cerca di rabberciarla con altre verità. La speculazione sulla dignità e la vita delle persone è cosa che personalmente mi disgusta e non posso nascondere neanche il fatto di sentirmi nauseato nel constatare che purtroppo anche il Cerro Torre è diventata una montagna capace solamente di ingombrare di ferocia le discussioni e di condannare le sue vittime alla polemica. E’ diritto di chiunque dubitare, però la legittimità del dubbio viene meno quando si trasforma in accanimento e prevaricazione basandosi su altre inesattezze ed omissioni, fino a divenire inaffidabile quando manca il senso del rispetto delle persone ed il riconoscimento del valore delle cose che fanno anche gli altri.
E’ ormai risaputo che anche la storia dell’alpinismo è stata, e rimane, sempre sbilanciata a favore di quelli capaci di strillare di più, come pure il sommarsi dei più piccoli errori ed inesattezze possono rendere falsa la stessa storia. Questa vicenda non ha bisogno di altre bugie per essere creduta o no, e mi pare oltremodo pretestuoso arrogarsi anche il diritto di modificare a proprio piacimento ed in modo interessato le regole non scritte e la stessa storia dell’alpinismo, specie in questo contesto in cui la verità obbiettiva manca ancora di certezza, rimanendo tuttora presunta e mai espressa da prove contestualizzate.
Quanto squallore si respira in questi ultimi tempi sulle montagne della Patagonia, e purtroppo anche del mondo, dove la parola d’ordine sembra essere la fretta, l’esibizionismo, il collezionismo, la commercializzazione delle passioni e dei sentimenti, la frenesia dei record e la corsa al risultato a tutti i costi. Sembra un alpinismo dopato solo per arrivare più in alto, drogato da vanità, denaro, egoismo e servo degli sponsor, dove i più rincorrono solo superficialità ed apparenza, altri si auto-investono sovrani di verità, paladini del giustizialismo e dittatori di ambiguità, e molti altri ancora, concepiscono la montagna solo come sterile campo di gara e di conquista dove rincorrere successo e notorietà, per poi raccontarla alla loro maniera sentenziando spropositi con o senza cognizione di causa.
Tu non scali soltanto vie impensabili su montagne difficilissime, trovi pure il tempo di filmare e poi fare film. Quando ti è nata questa passione?
Mi piace l’arte in generale e mi sento attratto da qualunque manifestazione artistica, purché sia seria e propositiva. La fotografia ed il cinema mi hanno sempre affascinato ed anche le moderne composizioni video e le rappresentazioni di immagini le considero come espressione d’arte se però sanno esprimere i sentimenti e la ricerca interiore, inducendo alla riflessione per lanciare messaggi profondi.
Cosa cerchi di esprimere attraverso i tuoi film di montagna?
Le arti visive sono la delizia degli occhi e l’alimento della mente e dell’anima, e forse uno dei miei maggiori rammarichi è quello di non poter disporre di più tempo per dedicarmi a queste espressioni. Amo dipingere, scrivere, disegnare, scolpire, fotografare, e anche con questi film e le immagini video cerco di trasmettere le sensazioni che provo vivendo esperienze che spesso lasciano dentro un segno profondo, e magari comunicare anche le grandi emozioni che a volte è difficile esteriorizzare e condividere direttamente con gli altri, ma che riescono ad arricchire d’immenso ogni attimo di vita vissuto con vera passione.
Tra quelli che hai girato, “Patacorta”, dedicato a Cesarino Fava, è forse il film più toccante, lo pensi anche tu?
E’ un affettuoso ritratto, reale e spontaneo, di come era veramente Cesarino Fava.
A parte i primi piani nei quali parla, il resto è tutto una composizione di immagini catturate a sorpresa, senza preparazioni o finzioni, in occasione di varie escursioni e scalate effettuate con amici. Molte volte Cesarino non sapeva neanche di essere filmato… ed il suo genuino filosofeggiare sulla vita e l’alpinismo lascia trapelare la sua indubbia predisposizione al dialogo ed al confronto con chiunque avesse voglia di parlare o discutere di tutto senza barriere e ad ampio raggio. Sapeva rapportarsi con tutti e senza limiti di età, pregiudizi o estrazioni sociali. Credo che da “Patacorta” appaiano anche tante delle sue perle di saggezza, come la vitalità nei comportamenti, la cultura, la straordinaria conoscenza, la totale fiducia nei giovani e nel futuro e la grande voglia di fare, nonostante avesse ormai già oltrepassato la soglia anagrafica degli ottant’anni.
Qualche anno fa hai fatto parte della giuria del Festival della Montagna di Trento. Che esperienza è stata?
Durante quelle giornate ho avuto come l’impressione di potere osservare il mondo a 360 gradi in tutti i suoi aspetti: culturale, sociale, religioso, sportivo e di avventura, esplorativo, naturalistico e di usanze e tradizioni. E’ stata un’esperienza utile e costruttiva perché, nonostante la pesante indigestione di film, parole ed immagini, mi ha anche dato l’opportunità di confronto tra varie personalità e modi di interpretare l’arte della cinematografia ed, inoltre, maggiore conoscenza delle varie tecniche e possibilità propositive. Sono rimasto molto soddisfatto dell’esperienza, anche se mi sono reso conto che non è facile calibrare i vari gusti artistici e le diversità di pensiero.
Tra le molte vie che hai aperto sulle cime della Patagonia, c’è né una che ti è rimasta nel cuore?
Tutto quello che si riesce a realizzare diventano poi ricordi e, anche quelli più belli, danno la completezza di un percorso di vita. Soprattutto in montagna, su tutte le montagne, tralasciarne qualcuno per indicarne o sceglierne altri è un po’ come scucirsi i propri sentimenti dal cuore.
E un momento in cui te le sei davvero vista brutta.
Succede molte volte in particolari situazioni di tirare fuori anche quello che non ti sembra di avere pur di cavartela alla meno peggio. D’altronde, soprattutto sulle grandi pareti della Patagonia, i repentini cambiamenti climatici ed ambientali impongono l’inesorabile percezione dell’incertezza in quasi tutte le salite di un certo impegno. Questa è la caratteristica essenziale che si deve accettare e con la quale ti devi continuamente confrontare, divenendo poi una sorta di selezione naturale psicologica che il più delle volte però, se non ti sai adattare, porta al fallimento. Personalmente, ancora oggi, non vado in Patagonia con spirito di conquista, ma semplicemente per viverla e non “consumarla”, in tutti i suoi aspetti, adattandomi al suo ambiente ed alle regole naturali. D’altronde la Patagonia mi ha insegnato che anche da un insuccesso si ha la possibilità di portarsi a casa qualcosa di positivo, come ad esempio i rapporti umani e la conoscenza.
Il ricordo più bello del tuo andare nel vento?
Ancora adesso, quando chiama urlando il silenzio, mi piace rispondere ricercando semplicemente l’impresa della normalità, non troppo, non poco, ma la giusta maniera… ed in Patagonia anche il silenzio sa urlare davvero, tanto che lo si confonde talvolta con il rumore del vento, ed il vento laggiù è una costante che domina quasi su tutto… anche dentro noi stessi, acuendo maggiormente quel senso di fragilità che poi è intrinseco della nostra natura umana… e anche se noi alpinisti o arrampicatori facciamo quel che facciamo cercando di esorcizzare questa nostra fragilità, talvolta cercando anche l’impossibile nel possibile, alla fine bisognerebbe non dimenticassimo mai che rimaniamo pur sempre fragili nel nostro modo di essere e di fare, nel nostro fisico e nella mente, di fronte alle immensità ed alla potenza delle grandezze naturali.
Con il figlio di Cesarino, Lucas e suo cognato Horacio, hai aperto una via bellissima sul Fitz Roy, “Via dell’Eleganza”, dedicata a Gino Buscaini.
E’ stato molto curioso come è nata la cosa e particolarmente singolare come si è conclusa, perché Horacio e Lucas non avevano nessuna esperienza su una grande parete e dapprima non si fidavano neppure di confidarmi che sarebbe piaciuto loro almeno provare a mettere le mani sul Fitz Roy. Leggendo il loro immenso desiderio negli occhi mi è venuto quindi spontaneo incoraggiarli ad intraprendere la loro prima grande avventura. Nessuno di noi credeva veramente nella riuscita della salita. L’abbiamo affrontata sin dall’inizio con semplicità ed essenziale rispetto, senza tante velleità di successo e solamente con l’idea di divertirci arrampicando il più in alto possibile.
Niente spirito agonistico quindi, ma solo un vero e semplice alpinismo di ricerca, rivolto più al recupero del rapporto umano, senza fretta, record da battere o corse che lasciano indietro i compagni. Non ci siamo fatti “annunciare” da nessuno, però poi in silenzio, piano piano, le cose si sono succedute da sole e salendo abbiamo recuperato la fiducia, sbloccando di conseguenza anche il cervello, realizzando giorno dopo giorno la nostra “linea di eleganza”.
Solo sull’orizzonte infinito della “cumbre”, osservando la gioia che rideva nei loro occhi, ho capito che avevano veramente realizzato il sogno della vita, il loro sogno impossibile.
Negli ultimi anni apri vie a tre. Con due compagni. È un numero perfetto o sono degli amici collaudati?
Non credo dipenda dal numero dei compagni determinare il successo di un gruppo, ma piuttosto dalla coralità dei rapporti d’intesa e dalla qualità dei valori umani fra i vari elementi. Importanti sono la condivisione dei compiti e degli impegni senza ossessioni, esasperazioni e prevaricazioni. Il giusto equilibrio nei rapporti interpersonali richiede sempre il rispetto reciproco e la equa considerazione dei meriti, delle capacità, della bravura, ma anche della normalità.
Come descriveresti il tuo alpinismo?
Esistono molti modi di esprimere la propria passione per l’arrampicata e l’alpinismo come esistono diversi alpinisti e tanti modi di fare alpinismo. Ricercare il nuovo nell’ignoto stimola la fantasia, apre la mente alla curiosità dell’incertezza, regala grandi sensazioni di libertà fisica e mentale. E’ solo una questione di scelta di espressione individuale, e personalmente, non avendo mai ritenuto l’alpinismo come attività principale della mia vita, prendo l’arrampicata e l’alpinismo come straordinario laboratorio di emozionanti esperienze positive e come insostituibile strumento di maturazione e ricchezza interiore.
Tra montagne chiodate, in “guerra” e supertrafficate, credi che ci sia ancora spazio per vivere l’avventura?
Sono stato sempre convinto che non bisogna mai mettere limiti alla ricerca o porre confini alla propria fantasia ed immaginazione, perché personalmente preferisco l’uomo all’alpinista, la semplicità del buon senso alla complessità delle polemiche, la sincerità della passione alla falsità del successo, il senso della misura e del rispetto all’insolenza dell’arroganza.
Oggi, da alpinista maturo e affermato, cosa cerchi ancora, cosa trovi nella montagna che ti spinge ad andare?
L’alpinismo e l’arrampicata li concepisco tuttora come sinonimo di gioia, divertimento, serenità, leggerezza, spirito libero, indipendenza mentale, benessere fisico, condivisione di passioni, reciproco rispetto, amicizia; e tutto questo, guardandomi indietro, è quanto sono riuscito a vivere e realizzare fin d’ora… e spero di proseguire ancora così.
Per questo credo che la passione per la montagna serva a ritagliarsi uno spazio autonomo ed indipendente dentro noi stessi. Una specie di pezzo di cielo libero: libero dalle nubi della tendenza all’uniformità, dalla superficialità e banalizzazione moderna, dove si riesca a pensare ed agire in piena libertà senza costrizioni dirette, regole scritte o condizionamenti globali. Rimango convinto che la montagna può aprirci uno spazio riservato ed incondizionato: il segreto sta nel saperne raccogliere i favori ed i valori con umiltà e rispetto.
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