di Andrea Bianchi – MountainBlog
Il prossimo 2 aprile l’alpinista di Valfurva Marco Confortola partirà per tentare la salita del Kangchenjunga (8.586 m), terza montagna più alta del pianeta al confine tra Nepal e India. Per lui è il secondo tentativo, dopo che nel 2014 aveva rinunciato a quota 8.450 m a causa della fuoriuscita di un frammento osseo dal piede sinistro.
In questo piovoso pomeriggio prepasquale lo chiamo sul cellulare: mentre sento squillare il telefono ritorno con la memoria al nostro ultimo incontro in occasione della fiera ISPO a Monaco, a quella video intervista, a tutta l’impressione di energia che mi aveva lasciato addosso. Un istintivo, Marco, tanto che faccio fatica ad immaginarmelo nei dettagli della preparazione di una spedizione così complessa.
Quindi Marco, io ti chiederei di parlarmi proprio della preparazione di questa spedizione, e ti chiedo di farlo nel modo più semplice possibile, senza dare nulla per scontato. Innanzitutto, quali saranno le tappe di avvicinamento?
Partiamo il 2 aprile, da Malpensa voliamo a Kathmandu, dove ci fermeremo un paio di giorni per controllare tutto il materiale stipato nei bidoni e caricarlo sulle Jeep. Poi da lì comincia già il duro, un lungo trekking di 10 giorni attraverso le montagne nepalesi fino al Campo Base, un cammino che a me sembra infinito – un continuo su e giù, un passo di montagna dopo l’altro, è veramente eterno – e durante il quale ti devi comunque portare sulle spalle il tuo zaino con tutto il necessario per il tuo uso personale, perché devi essere comunque autonomo: devi avere il cambio di abiti, e tutto il necessario per accamparti di notte. Io mi porto perfino un ombrello, perché ti devi aspettare di tutto dal meteo, dal caldo che ti ammazza a dei gran temporali, e l’ombrello ti ripara sia dal sole cocente che dai temporali improvvisi!
Raggiunto il Campo Base (più o meno a 5.000 m), è importante posizionare bene le tende – in questo caso siamo su una morena – perché saranno la nostra casa per due mesi. A me piace sempre avere la luce del sole subito al mattino, per cui posiziono la tenda con l’ingresso verso Est.
Al Campo Base mi fermo un paio di giorni, e poi comincio a salire sulla montagna, che conosco fino a 100 metri dalla cima, perché tentai di salirla nel 2014. Appena si riesce piantiamo Campo 1, e da lì comincia l’acclimatamento vero e proprio, che per chi scala senza ossigeno è molto molto più lungo e più duro.
Di quanto tempo hai bisogno per acclimatarti?
Personalmente, per una cima alta come il Kangchenjunga io sono pronto più o meno in 25 giorni, però in questo “più o meno” non devi avere problemi di salute: un semplice raffreddore ti può mandare a quel paese la spedizione. La mancanza di ossigeno fa sì che il tuo corpo diventi lento in tutto, lento anche nella guarigione: il semplice taglio o graffio che ti puoi fare, che magari a casa guarisce in cinque giorni, là può impiegare due settimane; la stessa crescita della barba rallenta, te la fai una volta in settimana!
Chi troverai come compagni in questa spedizione?
Siamo una spedizione internazionale, dei quali siamo solo in tre o quattro a provare la cima senza ossigeno, tra cui oltre a me troverò due amici olandesi, Wilco Van Rooijen e Cas Van De Gevel, con i quali avevo raggiunto la vetta del K2 il 1° agosto 2008. Non fanno parte della nostra spedizione, ma sicuramente si uniranno le forze per l’obiettivo comune.
Che tipo di preparazione logistica e organizzativa richiede una spedizione simile?
Col tempo – sono 14 anni che faccio gli Ottomila – ho maturato l’esperienza e ho imparato a lavorare con le agenzie: ho cominciato ad agosto dello scorso anno a muovermi, per capire i costi, anche perché il Kangchenjunga è una montagna che pochissime persone vogliono salire: la sale solo chi vuole portare a casa tutti e 14 gli Ottomila, o pochi altri, non è una classica meta da spedizione commerciale. Non è l’Everest per intenderci, e non è semplice. A casa poi è importante preparare tutto il materiale, che poi verrà spedito nei bidoni via cargo; in questo caso io ho uno spedizioniere fidato che non mi ha mai perso nulla: deve funzionare tutto alla perfezione, perché la semplice perdita ad esempio di un bidone può essere fatale, e impedirti di proseguire. E poi non devi dimenticare nulla, perché poi lassù non hai il supermercato o la farmacia sotto casa: se dimentichi il dentifricio, ne fai a meno per due mesi, se non hai l’antibiotico a disposizione per il mal di denti o un ascesso, dovesse servirti, puoi essere costretto a tornare a casa! Deve essere fatto tutto in maniera meticolosa e precisa.
La preparazione fisica, invece?
Io amo tantissimo correre, ma dopo l’amputazione che ho subito ad entrambi i piedi per il congelamento, dopo un’ora e mezza di corsa ho mal di schiena, male ai piedi, male dappertutto. Per cui, abitando in Valtellina, faccio tantissimo sci alpinismo: quasi tutti i giorni riesco a fare 1.800 metri di dislivello in salita. Poi non faccio solo questo: il mio mestiere è fare la guida alpina, il tecnico di elisoccorso, il formatore presso le aziende, quindi devo rubare il tempo al lavoro, al sonno, alla famiglia. E’ un sacrificio, ma con lo sci alpinismo accorcio molto i tempi discesa.
E dal punto di vista mentale e psicologico, come ti prepari?
Credo che col tempo si alleni anche la mente. Io ho fatto anche arti marziali, e il mio Maestro mi ha insegnato ad usare la testa fin da piccolo. Poi è importante il luogo in cui tu vivi: io ad esempio da bambino andavo a scuola a piedi, anche se pioveva o nevicava, e queste sono situazioni ti formano. E poi questa col tempo diventa la disciplina dell’allenamento, che si fa anch’esso con ogni tempo, con la pioggia come con la neve. Così alleni anche la mente. Certo in altissima quota bisogna capire quando è il momento di fermarsi, di non andare oltre, e questo io l’ho fatto più volte, sia sulle mie montagne con i clienti, sia sugli Ottomila.
Non utilizzi l’immaginazione mentale per prepararti a raggiungere l’obiettivo?
No, io sono molto istintivo. Sono vivo perché il mio istinto, durante la discesa al K2, mi ha detto “fermati perché la cosa non funziona”: io l’ho ascoltato, e sotto di me sono morte undici persone.
Alla fine la preparazione migliore è rimanere in contatto con te stesso…
Sì, anche perché l’attività dell’alpinista è qualcosa che va oltre lo sport. E in fondo quello che conta per me è poter trasmettere alle persone la passione non solo per lo sport ma soprattutto per la vita, come faccio quando poi vado nelle scuole ad incontrare i ragazzi, per parlare loro della resilienza e di tante altre cose.
Lasciami dire infine che una cosa bella di quest’anno sono anche i prodotti che utilizzerò: Karpos, Scarpa, Level, dietro cui ci sono delle persone, delle famiglie, che danno l’anima per il loro prodotto, e questo per un alpinista è importante, perché ti senti supportato e senti che ti vogliono bene veramente.