Cari amici e compagni di avventura, sono quasi le nove di sera e sono dietro all’ennesimo articolo; come sempre non c’è un attimo in cui stare fermi. Ho appena finito di intervistare Federica Mingolla, per Stile Alpino, e son dietro ad altri due nuovi libri e altre due nuove riedizioni.
Domani dovrò finire di montare le prossime video interviste: Emanuele Biggi il fotografo, biologo e conduttore di Geo, Marcello Sanguineti lo scalatore esploratore, Marco Confortola l’himalayaista e guida, Alessandro Beltrame il grande filmmaker e alpinista e… tanti altri. Tutti sono definibili a fatica, perché sono “qualcosa” ma anche molto altro!
Prima di terminare queste e le tante altre cose, devo fare un nuovo richiamo muscolare, prima dell’allenamento di domani, con cui mi devasterò nuovamente in vista delle spedizioni. Tante cose, tanti spunti bellissimi …e il tempo è quel che è, cioé mai abbasanza! Prima che mi sfugga di mano, vorrei condividere con voi una sorta di ricordo, il mio pensiero che vola verso un luogo magnifico, il Nepal più antico e selvaggio.
3 giugno 1950, Maurice Herzog e Louis Lachenal, un passo dopo l’altro, risalgono gli ultimi 680 metri che li separano dalla vetta, dopo esser partiti dal campo 5. Non usano ossigeno e pian piano conquistano gli 8091 metri dell’Annapurna I.
Questa è la prima punta a essere scalata tra i quattordici giganti, l’insieme delle montagne che superano gli ottomila metri. I due esploratori francesi, dei veri fuoriclasse, hanno inseguito un sogno in una terra sconosciuta e piena di segreti, portando a termine la loro salita senza ossigeno.
Sono trascorsi settanta anni da quei giorni: è ancora possibile l’avventura?
Il 2 maggio 1964 venne scalato lo Shisha Pangma (8027 m) a opera di una spedizione cinese guidata da Xǔ Jìng, l’ultimo degli inviolati 8000. Il 16 ottobre 1986 Reinhold Messner fu il primo uomo a salire tutte e quattordici le più alte cime e da quel momento ogni genere di sfida venne tentata tra Nepal e Tibet …eppure esistono ancora aree estremamente selvagge e dotate di una potenza naturale intima e intensissima in queste lande.
La risposta arriva proprio dall’Annapurna Conservation Area: istituita nel 1992 e dotata di una superficie pari 7629 chilometri quadrati, che rappresenta una zona incredibile, caratterizzata da grande biodiversità e abitata solo in una minima parte. Si riconoscono fra le altre, le vette dell’Annapurna II (7937 m), III (7555 m), IV (7525 m), la Gangapurna (7455 m) e la punta Sud (7219 m).
Di fronte a questo pettine di immensi giganti, si stende il massiccio del Chulu e la sua punta più ambita, il Far East Peak alto 6059 m. Questa è la materializzazione di un alpinismo “antico”, costituito da silenzi e magia, in un grande spazio non gremito da folle, musica o code. Si tratta di una cima mediamente tecnica che sorge a nord del Marsyangdi Khola nella regione di Manang e fa parte del Manang Himal, che a sua appartiene al più grande Damodar Himal, nel cuore dell’Himalaya.
La sua ascensione richiede conoscenza e l’allenamento che devono essere in possesso di un alpinista abituato a salire i più classici 4000 metri delle Alpi, ma soprattutto il rispetto e l’amore per la montagna: l’isolamento che qui è possibile godere a partire dal campo base è raro e richiama davvero alle emozioni che vissero Herzog e Lachenal durante quella incredibile prima avventura.
Il viaggio incomincia lungo il classico trekking che da Dharapani conduce ai villaggi di Upper Pisang e Ngwal: si dimentica il caos totale e quasi piacevole di Kathmandu, in favore della natura e del misticismo dei templi, in un armonico sincretismo tra induismo e buddismo.
La vegetazione si modifica con l’aumentare della quota, passando da 1000 a 4000 metri; l’antico bambù che danza al vento della sera, creando delle onde verdeggianti, si alterna dapprima ai pini maestosi e poi ai rododendri, che qui hanno l’habitus di grandi alberi, disegnati dalle rughe del tempo e dalla sua storia antica.
Se le fioriture primaverili dipingono la bassa vegetazione, la comba intera s’incendia del foliage in ottobre, in contrasto evidente con le altissime quote, molto cariche di neve in autunno.
Il viaggio continua e raggiunge Yak Kharka, nome che identifica la radura che in questo luogo, come nelle altre vallate himalayane, era adibita ai pascoli degli Yak. Quest’area del Chulu è famosa per via delle due grandi cascate che precipitano dal suo altipiano sospeso, oggetto di desiderio e di pellegrinaggio da parte dei trekker.
La via sembra finire nel nulla, ma è proprio questo il luogo che, simile alle tolkeniane porte di Moria, dà accesso alla parte più remota del massiccio. Il percorso permette di raggiungere i campi alti, che esistono solo nella testa degli alpinisti che qui giungono e che posizionano le loro piccole tendine, in questi spazi sconfinati in vista delle grandi vette.
Il Chulu ha quattro peak: West (6419 m), Central (6584 m), East (6429 m) e il Far East, il più ambito, dalla via di salita più logica anche se forse la più semplice. L’area è talmente antica e selvaggia che anche queste quote, riportate sulla carta ufficiale, sono oggetto di dibattito e in quella stessa mappa, l’altezza del Far East è sbagliata…
Si ascende al campo base e poi al campo alto a 5350 m, in cui si dorme un’ultima notte, non sul grande ghiacciaio, ma ancora su sfasciumi, in vista delle più grandi montagne e con il proprio obiettivo ben visibile. Non è la quota a tagliar corto il fiato, ma la tal rara magnificenza, che fa battere il cuore e sgombra la mente.
La via di salita conduce al colle alto con qualche corda piazzata come mancorrente e di qui in poi l’ascensione è per scalatori. Chi accompagna può fermarsi, avendo comunque raggiunto la quota di 5500 metri e chi chiede il passo alla Dea della montagna, affronta il suo ripido versante.
La linea di salita si sviluppa per 700 metri, di ghiaccio in primavera e di neve polverosa in autunno. Generalmente si piazzano corde fisse su tre scivoli in sequenza, con una pendenza media di 45° e qualche strappetto un po’ più ripido, intervallato da ampi balconi si sosta. Se le nevicate permettono un passeggio più facile, ma molto più faticoso, il ghiaccio vivo limita fortemente il pericolo distacchi e rende più semplice il raggiungimento della cresta finale.
Prepararsi sulle Alpi per poi affrontare questa salita, è come fare un viaggio nel tempo e ritrovarsi in uno dei racconti segreti che tutti noi abbiamo sognato, ben più di una volta nella nostra vita.
Un ricordo e quindi un racconto di cui avevo bisogno questa sera: e ora… forza ad allenarsi, per la cena ci sarà tempo.
Christian Roccati
Follow me on FACEBOOK – Instagram