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29 Ottobre 2020

BANFF Film Festival 2020 e la libertà di Sognare e Vivere

Cari amici, come ogni anno il ciclo del BANFF Film Festival World Tour giunge al termine e, come ogni volta, mi ritrovo a parlare di questo incredibile appuntamento per avventurieri, cinefili, cineasti e appassionati.
…Che poi “appassionati” significa tutto e niente, considerando che lo siamo tutti, indipendentemente dall’apposizione con cui viene etichettato il nostro rapporto, professionale o meno, con ciò che ci spinge in sala, per sognare, e possibilmente realizzare quei viaggi onirici.


Questo 2020 doveva rispondere alle speranze di molti di noi e invece ci siamo ritrovati a casa, rinchiusi. La crisi sanitaria e poi economica, e le misure adottate in relazione alla prima, ci hanno privato di molto, ma non di tutto. Anche se alcuni di noi si sono assopiti e depressi, non senza motivo, molti altri bruciano come le ceneri della fenice, nonostante le difficoltà e i lutti, di qualsivoglia natura.
Alessandra Raggio, madrina di questo grande evento in Italia, ha creduto fortemente nel progetto e così, contro ogni aspettativa, il Festival ha avuto la sua conclusione. Il nostro massimo plauso va a lei, che ha permesso a migliaia di persone di godersi queste due ore di libertà in tutta sicurezza, con la possibilità di viaggiare almeno con la mente, inseguendo avventure ai confini.
Ora che sono seduto di fronte a questo piccolo schermo, con una coperta che mi protegge dal freddo pungente, senza un camino, non posso che chiudere gli occhi e rivedere quelle immagini. Scorrono dietro le mie palpebre…

Dapprima ascolto la canzone di A Nordic Skater, generato dall’incontro tra il regista Paulius Neverbickas e il norvegese Per Sollerman, un cortometraggio di 5 minuti in cui ogni senso viene amplificato alla ricerca della libertà, scivolando sul nero ghiaccio con una tra le migliori fotografie dedite all’antico nord che io ricordi, mista a stupefacenti chiaroscuri controluce.

La mia mente vola poi a Charge di Mike Douglas, Mike Gamble, Anthony Bonello, ambientato a Chatter Creek, in British Columbia; si immaginino 4 top skier che per 5 minuti attraversano le nevi polverose locali, in un magnifico bosco di conifere, ripresi con le più avanzate tecniche dai droni di ultima generazione. Mio zio che era di fianco a me al cinema, è rimasto a bocca aperta. E per stupire mio zio, il “saggio” valdostano …ce ne vuole davvero tanta!

Cambiamo luogo e disciplina con Danny Daycare. Una coppia di giovani genitori lascia a un amico la propria figlioletta, (per altro la rappresentazione di un piccolo angelo), e lui la porta a fare un giro in bici! Si direbbe una giornata tradizionale, ma le due ruote sono quelle di una mtb biammortizzata e la piccola si diverte dentro una carrozzella a rimorchio. In realtà per ogni scena “action” si tratta di un pupazzo, ma il pubblico lo scoprirà nel backstage… (E in sala ogni volta tutti se lo chiedono sussurrando e alle volte scuotendo la testa pregiudiziali). Inizia una sequenza di salti impressionanti al ritmo di un’allegra musica, sino a quando pare sia l’ora di tornare a casa, decisione presa dalla cima di un picco la cui punta non supera il metro quadrato! L’easter egg finale mostrerà la bimba “qualche centimetro dopo”, alle prese con alcune cunette da “saltare” con la propria bici …e un po’ troppo cioccolato in pancia! 4 minuti ben spesi grazie alla regia di Stu Thomson e ai protagonisti Danny MacAskill e Daisy Thomson.

Good Morning, regia di Maxime Moulin, Antoine Frioux e Richard Permin, rappresenta in altri 4 minuti intensi, la giornata (a)tipica dello sciatore freestyler Richard Permin, che si lancia sciando di tetto in tetto ad Avoriaz, nell’Alta Savoia in Francia. Lo spettatore si gode le acrobazie sulla cima dei palazzi sino al nuovo easter egg che…
(…be’ questo non posso dirvelo o rischiamo lo spoiler!)

Giunge il momento di parlare del cartone animato Hors Piste, di Léo Brunel, Loris Cavalier, Camille Jalabert e Oscar Malet. La rappresentazione di un soccorso alpino e l’ironia perenne sulle tipiche figure dei valligiani e dei loro “clienti”. La retorica montana è il teatro perfetto per 6 minuti assolutamente esilaranti …a questo punto mio zio, sempre sul sedile di fianco, aveva le lacrime dal ridere ed era mia zia a rimanere a bocca aperta vedendo la sua reazione. Vi assicuro che chi vive la montagna, (soprattutto gli antichi saggi), non può non riconoscere qualche amico o parente nei personaggi rappresentati.

Con Lhotse di Dutch Simpson, Rob Wassmer e Kaki Or, tocchiamo temi davvero intensi per 23 magici minuti, parlando della vita degli scialpinisti Hilaree Nelson e Jim Morrison, impegnati, dopo tante imprese, nella prima discesa integrale degli 8516 metri della quarta montagna più alta del mondo. Al di là della fotografia unica e delle riprese mozzafiato, della trama coinvolgente e dello screenplay eccellente, sono le domande e i valori a farla da padrona. La tematica al centro del film è, non solo la ricerca dell’avventura, ma cosa essa significhi nella vita di una madre, che non toglie in questo modo tempo ai propri figli, ma diventa al contrario una “mamma plus”. Inoltre: cosa significa l’avventura per un uomo come Jim, che ha perso in circostanze tragiche tutti i suoi affetti? Del resto i due protagonisti hanno cognomi che richiamano a viaggiatori dello spazio e del tempo: …e il karma alle volte risponde.

Spectre Expedition della Sender Films e di Leo Houlding è un’opera d’arte in cui i protagonisti narrano se stessi: Houlding appunto, insieme a Jean Burgun e Mark Sedon sogna e s’incammina sul sentiero invisibile. Il monologo iniziale ci permette di capire quale scintilla dà fuoco all’incendio di questa avventura. Basta veramente un attimo per poter creare una reazione a catena che in questo caso consegue la traversata glaciale di 300 km con 200 kg di materiale in 65 giorni, senza alcun tipo di supporto, utilizzando gli snow kite. Lo scopo è raggiungere una delle regioni più remote dell’Antartide e del mondo per scalare la cima della Spectre, nella catena delle Gothic Mountains. 36 minuti che volano in un lampo con una gestione perfetta dei tempi, del ritmo, delle immagini. I dialoghi sono spontanei e alternano tematiche davvero intense a momenti di ilarità più totale: la preparazione degli atleti è eccelsa, eppure essi rinunciano all’eroismo in favore della vita vera, che così li consacra ancora di più al ruolo di avventurieri. Si pongono a loro volta domande sulla famiglia, sulle loro assenze, sul bilancio tra perso e guadagnato, ma al contrario di ogni altro film sul genere, non danno alcuna risposta, la lasciano al fruitore che può formularla in base alla propria sensibilità, conoscenza e scala di valori. Mi sono reso conto di quanto sia realizzato bene questo film, perché avrei risposto in maniera diversa nelle varie fasi della mia vita alle questioni implicite: il che significa non solo che Leo mi ha portato con sé nella sua incredibile avventura, ma anche che mi ha trattato con vero rispetto, regalandomi un altro frammento di libertà, la mia scelta intima.

The Ladakh Project è una di quelle opere che mi colpisce lasciandomi perplesso. Il film è senz’altro di grande importanza, con la regia di David Arnaud e Corinna Halloran, e riprende in 13 minuti il grande exploit della kayaker francese Nouria Newman. Le scene raccontano e documentano il suo primo viaggio in solitaria, affrontando in spedizione ben 375 km di discesa lungo i fiumi Tsarap, Zanskar, e Indo, nella regione del Ladakh, nell’India settentrionale. Il tema dell’opera è senz’altro incredibile: lo spettatore vede il cortometraggio a fatti avvenuti, ma l’atleta vive una condizione di rischio elevatissimo “qui e ora”, cavandosela solo con le proprie forze, contro innumerevoli pericoli oggettivi. La telecamera soggettiva trasporta il fruitore sul kayak in stile “POV” e lo conduce nelle rapide sino al momento in cui Nouria rischia seriamente la morte, ma riesce comunque a sopravvivere. Non mancano le scene tenere e quelle divertenti, sino al grande successo; la sovraimpressione di una cartina permette di capire mediante realtà aumentata, lo svolgimento del viaggio e immaginare di vivere l’esperienza, trasportati dal flusso delle acque e dalla passione della Newman. La mia perplessità nasce onestamente dal fatto che queste premesse quasi uniche e straordinarie, non generano un prodotto eccelso, perché al “tema” non consegue un “motivo” stupefacente. Montaggio e racconto non sono proporzionali al significato e all’impresa e non trasmettono totalmente quell’incredibile unicità della spedizione che invece riappare quando si racconta ad altre persone il film, dopo che esso è decantato.

Accade esattamente l’opposto con The Running Pastor, il film di Tim Kemple che in 9 minuti tratteggia la figura del pastore Sverri Steinholm che gestisce una piccola comunità situata nelle remote isole danesi Fær Oer, l’arcipelago di 18 unità situato in un tratto di oceano compreso tra l’Islanda e la Norvegia. Sverri è un appassionato di corsa, sin da quando era bimbo e viveva il suo rapporto con la natura pastorale. Tiene dentro di sé il peso delle passioni e delle “colpe” dell’intera regione e poi le lascia andare verso il cielo. Subito, e senza nessun giudizio, ci si domanda per quale ragione il pubblico mondiale dell’outdoor dovrebbe interessarsi a un singolo pastore che corre per sentieri …ed è questa la potenza dell’opera! “Perché sono così stupido da fare questo?”, “Non lo farò mai più”: questi sono i pensieri che attraversano la mente di Sverri, che appare “solo” un uomo, e che si domanda ciò che ognuno di noi si è chiesto molto più di una volta nella vita. Lo spettatore viene condotto per mano nella sua realtà, sino a quando se ne innamora e abitua, anche grazie alla fotografia spettacolare… A quel punto anche il fruitore ha il bisogno di correre, affrontando le forze della natura, ed esponendosi a esse per inseguire quel richiamo senza pari. La stessa colonna sonora del filmato muta e dai salmi intonati con l’organo, e cantati a cappella dalla voce ironica di Steinholm, si passa al gotico metallo pesante, in un ruggito unico che attraversa l’anima. Il film, come lo stesso Sverri, si rivelano.

In questi giorni in cui le scelte politiche in reazione alla crisi del Covid ci sottopongono a una nuova sfida nella sfida, in cui le tensioni inaspriscono come sempre i confini inesistenti fra le persone, in questo momento così difficile, voglio rivivere di nuovo The Imaginary Line e innalzarmi in questo breve excursus. Si tratta di un’altra opera di uno spessore unico: semplicemente unico.
Regia di Kylor Melton per 11 minuti di film: featuring Corbin Kunst e Jamie Marrufo, e doppio team. Squadra messicana con Sebastian Coatzin Gonzalez, Luis Flores Guadarrama, Octavio Garza Rosas, Verleria Escudero e americana con Alina Shamayim e Spencer Matthews. L’opera racconta di un tentativo semplice quanto impossibile. Un team americano e uno messicano si recano al confine tra le due nazioni, osservando che in realtà esso non esiste. Una grande frattura naturale corre tra i due stati, attraversata da un meraviglioso corso d’acqua, ma non c’è alcuna barriera da alcuna parte. Si tratta solo di una linea immaginaria che qualcuno ha tracciato e che consegue un sistema che, come loro affermano, crea ingiustizie. La sera prima della spedizione, attorno al fuoco, gli amici si confrontano e si rendono conto che non infrangono alcuna legge, ma potrebbero passare dei guai seri perché si contrapporranno a quel sistema …e potrebbero esser quindi trattati ingiustamente. La sfida è unire i due paesi inseguendo con una slack line un’altra linea immaginaria perpendicolare alla prima, una linea di fratellanza. I due gruppi riescono nell’impresa e oltre a fissare la slack, la percorrono anche, sulle note della magica musica di City of the Sun. Il punto culminante dovrebbe essere quello in cui i due leader dei rispettivi gruppi si sdraiano sulla slackline al centro del canyon e rimangono sospesi esattamente nel punto in cui dovrebbe esserci il limite, ma di fatto esso non esiste, come dimostrano, ci sono solo loro e l’aria libera. Il sentimento cresce ancora in un momento inaspettato in cui tutti non riescono a non abbracciarsi, volendosi semplicemente bene, senza alcuna retorica, ma istintivamente.

In questi giorni in cui l’invisibile distanza prossemica ci divide ancora, come una prigione senza sbarre, dopo anni di strilli cruenti, mi fa davvero bene al cuore vedere persone che si possono stringere senza alcun limite di spazio, pregiudizio o mente. Osservo uomini e donne che si abbracciano e continuano a tenersi, sembra quasi impossibile averlo dato per scontato. Sembra impossibile pensare a quanti si urlassero contro senza motivo quando potevano avvicinarsi e fondersi senza alcun limite… È bene puro e mi lascio coccolare volentieri.

Trailer

Christian Roccati
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