Cinquant’anni fa, sulla parete sud del Bec di Mea in Val Grande di Lanzo, si scriveva il prologo del “Nuovo Mattino”. Gian Piero Motti, Gian Carlo Grassi, Ugo Manera e Carlo “Carlaccio”Carena, tracciavano per la prima volta una via di arrampicata sulle rocce che sovrastano l’abitato di Bonzo. Forse i quattro ignoravano il significato archetipico che quell’arrampicata avrebbe assunto in seguito e che gettò le basi per quei “tempi moderni” che si sarebbero inaugurati nell’adiacente valle dell’Orco, quattro anni dopo. Forse, più semplicemente, l’importanza di quel momento era viva e chiara solo nella mente di Gian Piero, scaturita dall’empatia intimista con la sua Val Grande. Certo, si usarono le staffe, gli scarponi rigidi e i pantaloni alla zuava. Ma la brezza leggera che quel giorno di gennaio soffiava da ovest, sarebbe diventata vento impetuoso. I quattro uscirono in modo rocambolesco da un tetto finale fessurato appesi alle scalette, ciò che l’attrezzatura dell’epoca permetteva loro. Rinunciarono di fatto alla vetta vera e propria, che dopo una fascia boscosa svetta a dominio del fianco sinistro idrografico della valle. Quella che oggi gli scalatori chiamano “cuspide” o “cupola” e i valligiani semplicemente “la Mea”. La storia, in questo caso priva di documentazione dettagliata, non ci ha consegnato il nome di colui che per primo scalò in libera il Gran Diedro aggiudicandosi le difficoltà medie di 6b e di 6c nell’ultimo tiro. Qualcuno dice che fu Danilo Galante nel 1973 ad averne ragione ma rimane una notizia che si muove tra la testimonianza orale tramandata di bocca in bocca e la leggenda. Quello che è certo, è che il “Gran diedro di sinistra” si impreziosì nei decenni successivi di alcune belle varianti, anche difficili. Nel 1991, il trio Pecoraro, Amateis e Caresio, forzò un’uscita diretta lungo una bella fessura aggettante di 6b/A2 (oggi uno “stretto” 6b+) mentre nel 1999 fu il sottoscritto con Enzo Ballo e Nicola Ghiani ad aprire una bella variante di 6a+ al diedro centrale. Ricordo che superai i 25 metri di quel diedro vagamente fessurato con un solo chiodo e due nut, di cui l’ultimo spalmato a martellate in una fessura cieca…Il nut è ancora là mi dicono ma due solidi fix adesso riducono notevolmente il rischio. Il Gran Diedro oggi risente un po’ della sua età e dei vari tentativi, più o meno riusciti negli anni, di restituirgli l’importanza storica che merita. Forse, oggi, con maggiore saggezza e occhi meno annebbiati dalle mode del proprio tempo, sapremo rivedere il tutto nel rispetto della storia. Forti dei nostri BD della massima dimensione ci ricorderemo di quando, da ragazzi, salivamo attaccati ai chiodi arrugginiti e “staffando” il famoso bong incastrato di traverso nella fessura del primo tiro. Quando la via era un banco di prova obbligato per tutti noi scalatori locali e all’uscita ci sembrava di volare sulle chiome degli abeti dei Pasé. Per adesso, buon compleanno “Gran Diedro”…