La giornata volgeva al termine in quel bel martedì d’inizio giugno. Al Caporal avevamo salito una gran classica dello “scudo”: la “Via della Rivoluzione”. Avevamo scalato forzando la libera al massimo per le nostre possibilità e per l’attrezzatura in loco, ancora ben lungi dall’essere “rinforzata” come in parte lo è oggi. Per questo motivo, perché un po’ provati, l’avevamo presa un po’ comoda prima di iniziare le doppie. Alla pianta della seconda calata, che sporgeva da un esiguo terrazzino erboso un po’ inclinato, iniziava una doppia che ci avrebbe portato sulla linea di “Crazy Horse”, classica e rapida discesa fino alla base della parete. Eravamo una cordata piuttosto collaudata e venivamo da una stagione di salite impegnative sia in alta montagna sia in “basso”, molte delle quali “prime”. Generalmente avevo l’abitudine di scendere per primo, anche perché in quel caso ero io a conoscere meglio la parete. La doppia, per chi conosce il luogo, è piuttosto lunga e leggermente nel vuoto. Non so perché ma in quell’occasione dissi all’amico di scendere per primo, contravvenendo alla nostra “tradizione”. Chiesi se aveva dei cordini (hai visto mai) e lui annuì senza troppe ispezioni. Del resto Paolo era solito a numeri del genere: su ghiaccio, prima del tiro, gli chiedevi se aveva viti a sufficienza e anche in quel caso annuiva, salvo poi ritrovarsi con due viti piazzate su un tiro di 40 metri. La giornata era però stata favolosa e ci badai poco. Paolo scomparve sotto l’orlo del terrazzino e iniziò la sua calata. Passati alcuni minuti e vedendo le due mezze-corde ancora in tensione, urlai: «Tutto bene?». Nessuna risposta. Passarono dieci minuti e le corde erano ancora in tensione. Doveva esserci qualche problema. Mi allungai l’auto-sicura e mi sporsi ancora un po’ dal terrazzo, anche se lo strapiombo m’impediva ogni visuale. «Che è successo?» gridai nuovamente. Paolo mi rispose che era sceso troppo in basso superando di una quindicina di metri sia la sosta di “Crazy Horse”, sia quella della “Rivoluzione”, posta sotto il tettino prima del traverso. Penzolava ora nel vuoto con le corde quasi terminate. Allora urlai: «Risali e pendola verso la sosta più vicina!». «Non posso!». «E perché?». «Non ho i cordiniiii…». Improperi, insulti… echeggiarono tra le pareti del Caporal, assolutamente deserto. «Cerca di fare un bloccante a treccia con la fettuccia e provaci – gridai – io tento di aiutarti con un paranco!». Ma tra il dire e il fare, c’era di mezzo: l’attrito sul bordo del terrazzino, le corde divenute degli spaghetti e l’esigua possibilità di manovra. Infatti, il paranco non sortì grandi effetti. Inoltre Paolo era ormai appeso su cosciali dell’imbracatura da parecchio tempo. Disidratato, stanco, incominciò a provare una sospetta insensibilità alle gambe e un formicolio alle arterie femorali. Dopo altri venti minuti mi urlò che non ce la faceva e che le forze venivano meno. Cominciò ad avere giramenti di testa e nausea. Capii subito la gravità della situazione. Era ormai da più di un’ora che se ne stava appeso nel vuoto e sarebbe potuto svenire da un momento all’altro. Io ero bloccato sul terrazzino e l’imbrunire era alle porte. Gli urlai: «Paolo, devi farcela assolutamente! Non puoi rimanere appeso ancora e nemmeno si può pensare di passare la notte qui! Provaci!». E Paolo ci riprovò. Io però non lo vedevo. I minuti passavano e dovevo prendere assolutamente una decisione. Dalla sommità del Caporal mi separava un diedro di 5c, il tiro più semplice della via. Sarei potuto salire slegato, pensai, e una volta in cima avrei saputo destreggiarmi sulle placche e scendere a Pian D’Lera a chiedere soccorso (il telefono non l’avevamo). E se Paolo però, fosse riuscito nel frattempo a risalire? Non potevo comunque aspettare oltre: si stava facendo buio e salire lungo il diedro fessurato sarebbe stato un azzardo ancora più folle. Allora mi slegai e attaccai il diedro. Lo salii e lo ridiscesi in arrampicata per memorizzare al massimo i movimenti. Sotto c’era tutto lo “scudo” del Caporal…Ridisceso fino alla pianta, mi affacciai per un’ultima volta a controllare la situazione. Poi sarei ripartito nuovamente sul diedro e sarei sceso verso valle. Dal basso la voce impastata di Paolo mi sembrò questa volta più vicina. Incredibile! Dopo tutto quel tempo appeso era riuscito a risalire e ora si trovava all’incirca all’altezza della sosta della “Rivoluzione”. Era ancora, però, otto metri a destra! Iniziò il tentativo di pendolare nel vuoto, ancor più faticoso della risalita. Per tentare di fornire un aiuto, in qualche modo, mi allungai di un paio di metri fino a puntare i piedi sull’orlo del terrazzo. Collegai un auto-bloccante alle due corde e al mio anello di servizio dell’imbragatura: a ogni pendolata di Paolo, tentavo di sollevare un po’ le funi e di “rilanciarlo” in direzione della sosta. Non so quanto potesse servire, ma Paolo alla sosta alla fine ci arrivò, agganciando al volo un rinvio poco prima di essere risucchiato indietro dalle corde e dal vuoto dello “scudo”. Erano passate due ore e mezzo, ed è incredibile come, in pochi minuti, fummo alla base con calate questa volta azzeccate. Mentre alla macchina riordinavamo alla svelta il materiale, saltava fuori, tra il materiale lasciato nel bagagliaio la mattina, un sacchetto pieno di cordini…