“Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton” Raymond Priestley
Abbiamo ripercorso (a questo link) la prima parte della spedizione Endurance, capitanata da Ernest Shackleton, che aveva come obiettivo l’attraversamento a piedi dell’Antartide partendo dal mare di Weddell. Avevamo lasciato Shackleton, verso la fine del febbraio 1915, inevitabilmente alla deriva con il suo equipaggio sull’Endurance ormai intrappolata dai ghiacci, con l’esploratore e i suoi uomini intenti a preparasi per affrontare un rigidissimo inverno in quelle condizioni.
Inizialmente Shackleton non aveva compreso la gravità della situazione nella quale l’Endurance si trovava, confidando sull’esperienza dei suoi uomini nel riuscire a trovare una via d’uscita fra i ghiacci per riprendere la navigazione. Eppure, giorno dopo giorno, era sempre più chiaro che difficilmente l’Endurance avrebbe trovato uno spazio per disincagliarsi dai ghiacci. Frank Worsley, il capitano della nave, registra minuziosamente gli spostamenti che risultano essere di soli pochi chilometri verso ovest ed al tempo stesso verso nord durante il mese di febbraio, ma già in marzo il pack accelera il suo movimento e porta la spedizione sempre più lontano dalla costa di Luitpold.
Shackleton, ormai cosciente della situazione, scrive: “Il primo maggio diciamo addio al sole ed entriamo nel crepuscolo che sarà seguito dall’oscurità del pieno inverno. Il sole, grazie alla rifrazione rischiara l’orizzonte da mezzogiorno sino alle 2.” L’unica speranza per gli uomini della Endurance era ormai il sopraggiungere dell’estate con un innalzamento delle temperature che avrebbe potuto aiutarli a rompere il ghiaccio per riprendere la navigazione.
Nonostante questi auspici, però, a luglio Shackleton si rende conto che l’Endurance è ormai perduta e la spedizione definitivamente compromessa. Il 24 ottobre 1915 è il giorno in cui la nave finisce in una frattura della banchisa. Sottoposto alla pressione del ghiaccio, il ponte inizia a torcersi ed a scomporsi. A questo punto l’acqua inizia ad entrare nella stiva, mentre il legno si spezza con rumori terrificanti successivamente descritti dai marinai come simili a quelli di grandi fuochi d’artificio e alla detonazione di cannoni. Nonostante il tentativo di pompare fuori l’acqua dallo scafo, il 27 ottobre 1915 Shackleton dà l’ordine di abbandonare la nave:
“… nell’Endurance avevo riposto ambizione, speranza e desiderio. Adesso, gemendo e stridendo, mentre i suoi legni si spezzano e le sue ferite sanguinano, sta lentamente morendo, proprio ora che la sua carriera era appena iniziata.”
Lo sforzo di Shackleton e i suoi uomini, a quel punto, consiste nel rimuovere i materiali e le provviste dalla nave prima che si inabissi definitivamente. Portati in salvo i cani, le scialuppe di salvataggio e i materiali fotografici inizialmente abbandonati, gli uomini si accampano al cosiddetto “Ocean Camp” con una temperatura di -25° senza poter contare più sulle provviste rimaste nella stiva della Endurance che si inabissa il 15 novembre 1915.
Shackleton e il suo equipaggio restano dal 29 dicembre all’8 aprile 1916 su un lastrone denominato “Patience Camp” quando tentano di raggiungere, a bordo delle tre scialuppe tratte in salvo dalla Endurance, l’isola Elephant; il 15 aprile 1916 riescono a raggiungere le coste dell’isola che, tuttavia, non è il luogo ideale dove attendere soccorsi. L’isola è infatti ricoperta solo da neve e ghiaccio, oltre alle poche rocce che emergono nei paraggi. I soli animali (foche e pinguini) non possono costituire una fonte di cibo sulla quale fare affidamento e l’arrivo dell’inverno è un’ulteriore fattore di pericolo e preoccupazione che Shackleton e i suoi uomini non possono ignorare.
A questo punto Shackleton ordina al carpentiere della spedizione di lavorare a una delle scialuppe della Endurance, la James Caird, alzandone i bordi, rafforzando la chiglia e costruendo un ponte improvvisato in legno e tessuto intriso di olio e sangue di foca per renderlo impermeabile. Il 24 aprile 1916 la scialuppa si mette in mare con Shackleton e altri quattro uomini i quali partono per la Georgia Australe a 1300 chilometri di distanza verso nord fra onde alte 20 metri, venti sui 70 km/h e varie avversità che hanno trasformato il viaggio della James Caird in una delle più temerarie imprese marittime di tutti i tempi.
Il 10 maggio 1916, dopo oltre 15 giorni di navigazione, Shackleton e il suo equipaggio toccano terra non prima di aver lottato con una bufera che rischiava di compromettere l’intero viaggio della James Caird. L’esploratore, conscio di non poter circumnavigare la Georgia del Sud per raggiungere le stazioni baleniere sull’altro lato a causa delle intemperie, sceglie di attraccare la James Caird nella baia di re Haakon e si mette in marcia a piedi. Il gruppo ormai prossimo alla metà si deve misurare con un territorio inesplorato, formato da montagne perennemente innevate e ghiacciai, realizzando la prima traversata in assoluto della Georgia del Sud.
Dopo un giorno e mezzo di marcia, con ai piedi dei ramponi improvvisati realizzati conficcando dei chiodi negli scarponi, il gruppo percorre la trentina chilometri in linea d’aria che separano Stromness dal punto di partenza con un tempo di attraversamento tanto breve che anche alpinisti esperti e ben equipaggiati, al giorno d’oggi, hanno difficoltà ad eguagliare. Appena arrivati nella Georgia del Sud, Shackleton e i suoi uomini devono misurarsi la sfida di recuperare gli uomini rimasti sull’isola Elephant. Un primo tentativo viene effettuato soltanto il 23 maggio 1916, tre giorni dopo l’arrivo, con il peschereccio The Southern Sky che si deve arrendere in prossimità dell’isola causa dello spessore della banchisa.
Convinto di chiedere aiuto al Regno Unito, Shackleton fa rotta allora verso le isole Falkland dove apprende che gli sforzi bellici per la Prima Guerra Mondiale impediscono alla Gran Bretagna di poter inviare aiuti per almeno sei mesi. L’esploratore, incassato il rifiuto del suo Paese, decide di cercare risorse in America Latina dove riceve aiuto dall’Uruguay e dal finanziatore britannico Allan McDonald senza tuttavia riuscire nell’operazioni di recupero nonostante due tentativi. Il 30 agosto 1916 però, quattro mesi dopo la partenza dall’isola Elephant, Shackleton riesce a raggiungere tutti i 22 naufraghi con la nave militare cilena Yelcho, trovandoli incredibilmente ancora vivi e in discrete condizioni.
Molto è stato scritto su questa impresa. Una bellissima puntata di Super Quark, dedicata per intero a Shackleton e alla spedizione Endurance (che riportiamo qui sotto) vi permette di approfondire ulteriormente le vicende e i protagonisti di questa storia. Ad ogni modo, l’impresa di Shackleton non ebbe una grande eco nel Regno Unito dove ebbe maggiore risalto il fallimento della spedizione rispetto agli sforzi profusi da Shackleton per salvare la vita del suo equipaggio.
Da questo racconto si capisce ancora meglio perché Raymond Priestley affermò: “Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton“.
Andrea Bonetti – MountainBlog.it