Cap.1 – Il vento in Nuce
Le dita sono appoggiate su una superficie rossa e rugosa, prima tartan, ora sportflex: fa quasi piacere. Alcuni atleti la prima volta senton un appannato male, non un vero e proprio dolore, soltanto una sensazione d’intensissimo tocco.
Le falangi si tendono e sostengono tutto il peso della convinzione, quello del corpo perde rilevanza, diparte dalla realtà diventando astrazione.
Il vento è immobile. Aria statica, che il frame successivo tornerà dinamica e potrà chiamarsi ancora brezza, ma non ora. Non ora.
Nell’istante prima dello sparo anche le foglie che galleggiano nell’ossigeno hanno perso il loro diritto a volteggiare.
Non c’è alcun rumore. Soleo e gemelli crociati son pronti, fermi. Le guance pendono rilassate dal viso e le pupille sono dilatate, con le palpebre che non sbattono.
Poi quel dirompente fragore, la voce della pistola frantuma lo specchio dell’irrealtà, come se avessero rotto il secco ramo che fa scoprir l’intruso, tu, la consapevolezza del qui e ora si fa largo nella mente, un battito alla volta.
Una barriera mortale di centesimi scatta contro di te e t’insegue.
Devi esplodere verso la vita, così schiacci più forte che puoi il blocco, condensando in quel tallone destro tutta la tua esistenza, ciò che vuoi, chi sei, quel che hai vissuto fino a trovarti lì in quel momento preciso.
E “bam”, “bam”, “bam”… colpi distesi coi piedi, in porzione diritti e in parte laterali, per trasformare in una linea il triangolo delle spinte che tendono al suo vertice.
Il movimento cambia e ti alzi, molto più celermente di quanto farebbe un centometrista, perché lui ha solo la barriera del vento dietro di sé, tu ne hai altre dieci davanti.
Ed è quello il momento in cui vedi il tubo nero e bianco degli ostacoli, è quello l’istante in cui mostrano il loro vero volto. Tutti pensano che siano dieci segmenti posti a una distanza pari a 9 metri e 14 centimetri, ma noi sappiamo che il leviatano si nasconde in forme effimere e beffarde.
Conosciamo la vera natura di quell’essere: è una bocca che ti aspetta a fauci spalancate e che si mostra orrenda solo da quella posizione, e talvolta ammicca impudente dai blocchi, quando vedi attraverso le sopracciglia quel canale di legno e metallo così fiero e selvaggio.
In quel millesimo di secondo tutto il tuo cuore si rivela e mostra il tuo vero spirito, che si confronta con quello del leviatano. E, mentre corri contro gli ostacoli, pensi «non vorrei proprio essere in voi, sto arrivando».
…ma non ancora, non è ancora tempo.
Il mostro riposa e io gioco spensierato in montagna tra le mie vallate, boschi e combe, in questa lunga estate valdostana. Vivo in quota nella costa delle becche di Vioù e Roisan, eppure il mont Emilius mi sorveglia, quasi altri tremila metri più in alto. La becca di Nona sorride e l’antica foresta di Les Laures si muove ondeggiando alle brezze mattutine.
In questi giorni con zii e genitori siamo stati a Comboé, una nostra tradizione. Noi bocia andiamo a prendere le pigne e la legna secca per il fuoco, che poi gli adulti accendono. Zio Sandro tira fuori l’immenso paiolo di fronte alla cappelletta e si mette a fare la polenta: le sue braccia sembrano più grosse e muscolose delle gambe di un toro. Noi arrampichiamo sui massi e guardiamo le vette tutto intorno che sono state il teatro delle scalate di zio Dante e delle avventure di tutti gli altri.
Saliamo sulle “enormi” rocce del magnifico vallone e saltiamo da un lato all’altro del torrente battagliando fra noi con pigne e pietre. Sono il più grande fra i piccoli e di norma combatto da solo contro tutti, perché altrimenti non sarebbe un gioco equilibrato.
Non ci sono vincitori o vinti, lo scopo è divertirsi e trovare una scusa per saltare, correre e lanciare. Non mi pongo il problema, ma non ho la minima idea di come faccia a non frantumarmi in pezzi: mi getto da massi alti fino a quattro o cinque metri e rotolo per dieci su pendii a settanta gradi.
Giochiamo a qualsiasi cosa ci passi per la testa in attesa di quando anche noi potremo scalare quelle cime, sciare per quei crinali, respirare la voce degli Dei che gli altri già hanno potuto avvertire. La percepiamo dentro di noi, chiara e netta, nelle sculture in legno, nel profumo degli abeti maestosi o degli intricati pini, nelle scritte sui tronchi stese con inchiostro di resina da Madre Natura.
Spesso mi allontano da solo, convinto di trovare lassù, sulle rupi, qualche spirito: non li vedo mai in carne e ossa, ma li sento, so che sono lì. Guardo tutto dall’alto sapendo che c’è sempre qualche cosa di più elevato di me, che mi permette d’esser perennemente in cammino verso qualcos’altro da raggiungere.
In queste giornate d’anima e di sogni, di roccia e di aria, la mia unica possibile preoccupazione quotidiana sono i compiti estivi: anche solo la parola “compiti” genera in me un peso notevole per l’incombenza grande di gestire così tanto lavoro, non giorno per giorno, ma nell’arco di tre mesi. Si dà per scontato, ma non è poco per un bambino delle elementari.
Questa mattina ho terminato ciò che avevo da fare e posso giocare tranquillo allo chalet: il grande prato è il mio campo per spedizioni in Malesia dove Sandokan evita sempre le sabbie mobili, ma i nemici mai, loro ci affogano, con una mano che è sempre l’ultima a sparire chiedendo aiuto. Il giardino attorniato da picchi e crinali diventa per me il deserto di Maciste, Ercole o Ursus; a volte parto per l’Oceano oltre le Colonne, altre combatto come un gladiatore. Non è ancora tempo di imitare Bruce Lee, Ken o Seya di Pegasus, non so ancora chi siano. Respirano più epoche in contemporanea in questo luogo e non c’è limite alla fantasia.
Allo chalet, nonna Lina prepara un pasto con mani intarsiate da anni di farina e lieviti. Le sue dita ruvide e forti hanno plasmato tonnellate di terra e piante, stretto chilometri di roccia, ma al minimo contatto con l’acqua calda diventano morbide e soffici.
Dopo pranzo ancora qualche esercizio, musica e matematica, e finalmente, con il fresco la grande sfida: devo correre. Alla tv ci sono le gare di atletica e io mi sono goduto i velocisti mischiati con l’odore dei pomodori e della segatura che aleggiano in casa: magnifico. Olimpiadi o campionati del mondo? Non so la differenza, ma conosco Linford Christie, Frederick Carlton “Carl” Lewis, ma soprattutto Ben Johnson; è già difficile scandirne i nomi.
Mi preparo nel punto più a nord est del campo per finire in quello più a sud ovest, lungo la diagonale maggiore. Mi piace correre: sono il più veloce tra tutti i miei tanti amici, ma non sono il più forte.
Non conta molto la velocità per noi: devi saper fare i colpi segreti come un ninja per esser il “più qualcosa” di tutti; eppure amo correre libero. Il nonno mi vede, da lontano, e lascia fare, poi si avvicina e propone di cronometrarmi.
Proviamo due volte perché la prima non mi basta; «posso fare meglio» è ciò che penso, qualsiasi cosa faccia, indipendentemente dal risultato. Parto dapprima in piedi e poi provo da terra, come fanno i grandi atleti sui blocchi. Non è facile correr sull’erba, saltando la stradina di mattoni e pietre per arrivare fino dal nonno, ma ci provo. Lui fa calcoli strani con una proporzione per dirmi quanto tempo impiegherei per percorrere i 100 metri. «Mi allenerò tutti i giorni e diventerò bravissimo!»
Poi, come sempre al pomeriggio, il vento si alza, le luci diventano calde, le spighe invisibili compaiono d’oro, le montagne mostrano le proprie rughe trasdotte come ombre d’indaco nette e scure, poesia d’assenza, “tizzoni di buio”. La mia anima è già di nuovo lassù, non mi ricordo nemmeno di aver appena corso.
Il sole si corica ancora un poco, giunge il momento di bagnare e curar l’orto e tutti siam subito pronti per il lavoro. Andiamo a deviare una fonte appena avvertiamo il rumore dell’acqua e incanaliamo i flussi con un sistema di tubi da spostare a mano.
Sono piccolo e giovane, ma la mia mente è cosciente e consapevole: non vedo l’ora di salire quelle montagne, di correre, di diventare un esploratore, lo so. Voglio stare qui e festeggiare la sera con gli adulti, raccontando anche le mie avventure, le mie salite, quel pezzo di eternità da stringere in mano. Devo sbrigarmi a evolvermi, so già che niente dura per sempre, l’ho già imparato.
Nonno Fiorangelo è cardiopatico, nonno Silvano era cardiopatico.
Le montagne si dissolvono, catene precipitano gravi e altre si rialzano.
Non aspetto altro che tutto accada, ma so anche che un giorno, quando tutto sarà compiuto, proverò un dolore immenso, una nostalgia infinita pensando a questi momenti.
Un pezzetto di quell’assenza è già qui con me e non mi abbandona mai: eppure ora sono giovanissimo, c’è così tanta esistenza frizzante di fronte al mio volto che festeggio la vita e lascio la morte solo in un piccolo angolo di consapevolezza.
Trattengo il respiro, scatto, e corro ancora un po’, libero.
Mi piace il vento.
(Tratto da Sette Nero di Christian Roccati)
Christian Roccati
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