Mi è capitato tra le mani un altro dei racconti scartati all’istante dal il mio ventottesimo libro che uscirà in ottobre. Anche in questo caso non si tratta di un gran bel testo… ma più che altro di un’esperienza tra le innumerevoli che ho avuto la fortuna di vivere.
Lo condivido perché contiene tra i vari anche un ricordo in cui sono inciampato, uno di quelli che richiamano a qualcuno che non c’è più, un immagine che mi crea molta nostalgia. Una gran persona, scomparsa come una scia nella neve: lieve, netta, magica, senza peso, impossibile a non esser notata, esempio in un bianco uniforme. In un giorno di lutto com’è oggi, pur con altro tema, questa è la rima più consona che avverto.
Qualche tempo fa un amico mi chiese di fargli una sceneggiatura per un video di montagna che parlasse di ogni disciplina e io accettai di buon grado e mi misi subito al lavoro.
Sono abituato a fare movie su varie tematiche, spesso appeso in parete con la telecamera; è una di quelle attività artistiche che adoro. Avrei collaborato in tutto e per tutto anche alle riprese perché era necessaria una mano in ogni campo. Girai per tutto l’arco alpino occidentale a partire dall’Appennino e mi ritrovai tra ciaspole, sci, biciclette, corde, scarponi, mute e scarpette… Quando venne il turno di andare a filmare le scene sulle cascate di ghiaccio ci demmo appuntamento in val Varaita, in Piemonte.
In quel periodo mi trovavo in Valle d’Aosta per scrivere una guida di racchette e per me fu un’occasione per variare un poco ambiente. Mi diressi in auto verso le Cozie e mi accorsi solo strada facendo di aver dimenticato la cartina nello chalet. Impiegai un po’ di tempo a ritrovare il gruppo di scalatori che cercavo, ma riuscii comunque a presentarmi puntuale: tutto presupponeva la possibilità di una buona opera.
Quando mi trovai sotto la bianca parete, mi bardai della ferraglia necessaria e, una volta pronto, guardai finalmente in giro. Ero già stato anni prima alla base di quelle cascate, sempre in pieno inverno e sempre trovandomi di fronte a una sorta di castello incantato, tuttavia non avevo mai visto ciò che si trovava intorno, perché durante ogni scalata ero sempre stato sorpreso da bufere e immerso nella nebbia, sferzato dalla neve turbinante, ero riuscito a malapena a vedere le mie piccozze. In quel momento invece, sopra la mia testa, soltanto un cielo di colore indaco caratterizzava il soffitto del mondo. L’aria quasi tiepida rendeva peculiare quel momento.
Iniziai a scalare una cascata vagliando il terreno: indovinai i punti di osservazione e dovetti scendere e risalire più volte. Nonostante la temperatura non molto al di sotto dello zero, il ghiaccio si presentava davvero compatto, duro e ben poco alveolato.
Presi come punto di riferimento principale il buon Damiano, un giovane alpinista molto esperto che aveva già scalato molte pareti tra cui la nord dell’Eiger; era disponibile ed elegante nell’arrampicarsi, trasmetteva serenità, bontà, umiltà, e lo giudicai il soggetto perfetto.
Quel giorno scattai molte fotografie e ripresi i ghiacciatori in ogni posizione, dal basso, di lato e soprattutto da sopra, scalando di fianco a loro, rimanendo appeso ai chiodi da ghiaccio oppure alle abalakov, gli ancoraggi con la corda. In pratica dovevo salire parallelamente a chi si arrampicava, riprendendo il soggetto di turno, fermandomi di volta in volta per cambiare angolazione e inquadratura. Continuando a spostarmi, sempre appeso nel vuoto, riuscivo a ottenere prospettive continuamente differenti, come se a riprendere fossero molte telecamere e non una sola.
I soggetti, e in primo luogo il buon Damiano, dovevano collaborare salendo pazientemente su una linea di scalata evidente, mentre io mi preoccupavo di schizzare a destra e a sinistra per non perdere nemmeno un istante. Iniziai a fare anche dei lunghissimi pendoli realizzando la tipica sequenza aerea che di norma è possibile con l’uso dell’elicottero. La corda che era fissata in cima mi permetteva un buon angolo di manovra e il relativo grande movimento. Risalivo ad esempio tutto a destra scalando il ghiaccio e poi letteralmente correvo di traverso, verso sinistra, saltando poi nel vuoto, lasciando le piccozze a penzoloni. Volavo lontano dalla cascata, dietro le spalle di chi stava arrampicando, e arrivavo dall’altro lato. Ovviamente ritornavo indietro, pendolando in direzione inversa una volta esaurita l’energia cinetica in un senso. Con una picca afferrata velocemente, cercavo di agganciare il ghiaccio con un colpo per fermarmi. Quando mancavo il bersaglio il pendolo mi strappava via e continuavo a dondolare, sempre più piano, ma anche sempre più vicino a chi arrampicava, attentissimo a ogni minimo spostamento, dato che avevo ai piedi i ramponi da scalata.
Nelle inquadrature statiche invece dovevo rimanere immobile e quindi mi ancoravo ai vari cordini delle abalakov, restando assolutamente fermo.
Vitalij Michajlovič Abalakov fu un alpinista russo d’inizio novecento che migliorò l’alpinismo della sua epoca grazie a nuove tecniche di sua invenzione. Le protezioni su ghiaccio che prendono il suo nome furono una delle novità oggi entrate di fatto nelle abitudini dei ghiacciatori del nuovo secolo.
In pratica si pianta una vite nel ghiaccio a quarantacinque gradi con la parete e la si estrae, ottenendo una piccola carotatura. Si fa la stessa cosa dal lato opposto intercettando il primo canale: si ottengono così due piccole gallerie dritte, a novanta gradi l’una rispetto all’altra, comunicanti fra loro. La corda può entrare nel ghiaccio da un foro e uscire da un altro buco e chiudendo l’anello del piccolo spezzone si ottiene un ancoraggio saldo senza sprecare un chiodo. In questo modo si può creare una protezione sulle cascate simile a quella che si usa nelle cosiddette clessidre sulla roccia, che sono la stessa cosa, ma non vengono create dall’uomo perché ci ha già pensato la natura. Grazie alle abalakov è possibile ripiegare calando in doppia dalle cascate senza lasciare viti in parete ed effettuare tutta una serie di manovre utili.
La giornata non fu breve, sia per me, sia per i soggetti che continuavano a salire e risalire linee impegnative. Al termine della sessione salutai tutti e finalmente mi diressi alla macchina, pronto per viaggiare ancora. La mia pelle è la mia vera casa, come lo sono la mia mente e i miei pensieri.
Prima di partire mi guardai intorno: il sole era ancora alto e caldo. Non lo vedevo più da ore perché ovviamente le cascate di ghiaccio erano esposte a nord, protette dalla luce. La neve nel parcheggio si stava fondendo e creava piccoli luccichii e nella strada vedevo passare scalatori di fama, giovani e più datati. Alcuni arrivavano con le moderne attrezzature, mentre altri erano ancora dotati di scarponi di cuoio e piccozze, più antiche che vecchie. Sebbene molto più giovane di questi ultimi mi riscoprivo, senza sorpresa, a indossare gli stessi costumi, fossero quelli che si portano addosso, o quegli altri cuciti dentro. Sorrisi, inspirai lentamente una parte di quel cielo.
C’era ancora tempo perché le lacrime congelate della cascata si fondessero. Ferme, come silenti cristalli, mancavano del tintinnìo che gli scalatori riportano in vita con i loro chiodi, completando quella natura addormentata. Le montagne erano ancora innevate e la luce calda. Chiusi ancora un secondo gli occhi e espirai. Poi partii.
Christian Roccati
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