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18 Marzo 2025

Ski · Ski Touring e Ski Alp · Ambiente e Territorio

La drammatica “normalità” della valanga

valanga

A me sembra più che “normale” che quando le nevicate sono di questa natura, cospicue e sommate a una storia evolutiva della neve precedente, in montagna cadano le valanghe. La natura fa il suo corso. L’anomalia semmai potrebbe essere chi si addentra in un ambiente dove accadono questi fenomeni, ma la cosa potrebbe valere per chi sale con piccozze e ramponi su un flusso di acqua ghiacciata o per chi scala la parete di una montagna.

Essere travolti da una valanga, da una candela di ghiaccio (o precipitare attaccati a essa), oppure essere colpiti da una scarica di pietre, è dunque una reale, “normale” e “drammatica” possibilità. E’ sempre stato così e sempre sarà, finché, almeno, decideremo consapevolmente e secondo i mezzi e le conoscenze che abbiamo a disposizione, di entrare in quell’ambiente.

Cinquant’anni or sono, nel mese di luglio, una grande valanga si staccava dal Couloir Couturier dell’Aiguille Verte, uccidendo 13 persone, tutte guide alpine, istruttori e aspiranti di Chamonix. Basta poi andare indietro di poco tempo, per riscontrare incidenti invernali di ogni genere che hanno coinvolto professionisti ed esperti.

Alla base di ogni tragedia c’è sempre un errore di valutazione nello spazio e nel tempo da cui nessuno di noi è esente. Semplicemente non dovremmo essere lì, dove le motivazioni ci portano. Punto. Sappiamo tuttavia, per quella comune passione che ci muove, che ciò non è possibile.

C’è però un’importante premessa culturale che, soprattutto oggi, andrebbe fatta al netto delle scelte consapevoli di ciascuno. Va fatta perché la montagna è molto cambiata e sta mutando rapidamente nei suoi elementi essenziali e nelle sue manifestazioni: la distribuzione della neve ha una storia sempre più anomala, tormentata e tardiva, il ghiaccio ha una formazione sempre più soggetta a sbalzi termici importanti, in un periodo di permanenza sempre più breve. Le rocce dell’alta montagna patiscono fenomeni termoclastici estremi, non più stagionali ma periodicamente ravvicinati.

E questo discorso va fatto perché siamo nell’era dei social network, dove, grazie a “storie”, “reel” ed altro, si subisce l’attrazione di fantastiche discese in neve polverosa (anche inseguiti dalle valanghe) oppure lungo canali ripidissimi, così come di scalata lungo fragili stalattiti ghiacciate che pendono nel vuoto. Il tutto in un pericoloso contesto di richiamo “no limit”. La democratizzazione di questa proposta mediatica, un tempo prerogativa delle riviste specializzate, porta oggi a emulare, ad avere consenso attraverso immagini accattivanti. Di questo meccanismo, sia chiaro, fanno parte il neofito e l’esperto.
Intanto, l’immagine o il video che procurano “like” hanno sostituito la parola come strumento narrativo e quasi più nessuno scrive qualcosa d’intelligente e di utile sulla montagna. Quasi mai ci si spreca in un consiglio, in una considerazione oggettiva. Fosse anche di poche righe. Non è questa l’epoca e per questo non sono fatti Facebook, Instagram o Tik-Tok. E i risultati si vedono.

“Feticismo tecnico”

Ulteriore elemento è la deità che ha assunto il “feticismo tecnico”, come giustamente l’ha definito l’amico geologo e guida alpina Michele Comi. La montagna “selvaggia” innevata è diventata comunque un terreno per “sciare”, per fare dello “sport”, per divertirsi. Le cascate sono spesso considerate alla stregua di una falesia per l’arrampicata, complice, anche una percezione deformata degli ice-park. Un’idea della montagna che non fa altro che concentrare l’attenzione al piacere del momento, alla performance, ma che allontana e isola progressivamente dalla natura, dalla comprensione di quel che realmente accade intorno a noi.

Accanto alla centralità dell’attrezzo performante, vi è l’idea che tutto possa essere inquadrato e normato, che sia sufficiente seguire vaghe “regolette”, una tabella per matematicizzare il grado di pericolo o adottare il discutibile obbligo dell’APS. Soprattutto, è diffusa la convinzione che la nostra sicurezza deva sempre essere demandata e garantita da terzi. Questi fattori che costituiscono un amalgama complessa, hanno finito col sacrificare sull’altare del “veloce e predigerito” e del “banale consumo di esperienze”, la possibilità di sviluppare un graduale affinamento della nostra sensibilità nei confronti delle natura, di ciò che  che possiamo imparare a leggere “esplorando” con i sensi, a piccoli passi e maturando un senso del limite.

Forse, bisognerebbe avere il coraggio di ripartire da un punto di vista differente e di usare ogni “intrusione” in un ambiente ostile non solo per tracciare delle belle curve, eseguire dei gesti tecnici, ma come occasione per sentire, “odorare”, usare gli occhi non solo per vedere superficialmente, ma per tornare a capire.

Marco Blatto

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