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7 Novembre 2024

Alpinismo e Spedizioni · Vertical · Resto del Mondo

Langtang Lirung: recuperato il corpo di Ondrej Huserka

Guide nepalesi al lavoro all’interno del crepaccio sul Langtang Lirung. Fonte: Subin Thakuri FB

Aggiornamento Flash

Una squadra di guide nepalesi professioniste è riuscita a localizzare e a recuperare il corpo di Ondrey Húserka, l’alpinista slovacco sprofondato in un crepaccio durante la discesa dal Langtang Lirung.

L’operazione, condotta da Pemba Gelje Sherpa, Chhiring Sherpa, Kusang Sherpa e Prakash Sherpa, con il supporto di Altitude Heli e Easy Heli Service,  14 Summits Expedition insieme a NNMGA, ha richiesto due giorni: il primo giorno i soccorritori non sono riusciti ad individuare il corpo dello sfortunato alpinista all’interno del crepaccio. La squadra nepalese, tornata sul posto il giorno dopo, ha ultimato il  recupero nelle prime ore della mattinata.

Ondrej, 34 anni, aveva raggiunto la vetta del Langtang Lirung il 30 ottobre scorso, insieme al ceco Marek Holecek, dopo sei giorni di dura progressione, completando la prima salita della terrificante parete Est, alta 2500 metri, fino a quel momento inviolata.

Marek, appresa la notizia del recupero, ha così commentato:

“Grazie a tutti per il vostro lavoro professionale. So che è stato molto complicato e impegnativo. Sono felice che tutti coloro che sono stati coinvolti nel recupero di Ondrej stiano bene. Grazie ancora a tutti i ragazzi”.

Ondrej Huserka, in Nepal. Fonte 14 Summits Expedition

 

‘Ultimi giorni a Langtang’: il racconto di Marek Holecek

Di seguito il post pubblicato pochi giorni fa da Marek Holecek:

“Ieri, dopo nove giorni, sono arrivato come un fantasma nel piccolo villaggio di Kyangin Gompa, incastonato nell’incantevole valle di Langtang, circondato da cime innevate. Almeno, è così che apparivo ai tanti occhi ansiosi che mi attendevano. L’ultimo di quegli ultimi giorni della nostra storia, ho sentito dei droni e un elicottero volare sopra le nostre teste, tra le fitte nuvole bianche. Sapevo che probabilmente era per colpa mia, o meglio, nostra. Ero esausto, ma stavo ancora respirando [e il sangue] scorreva forte nelle mie vene. Intorno a me, volti familiari da ogni angolo del mondo mi abbracciavano quasi senza dire una parola. La loro compassione era genuina e i loro volti esprimevano gioia con un po’ di lacrime. Ma torniamo indietro di qualche decina di ore.

Tutto stava andando liscio. Dopo il giorno della vetta, quando eravamo a cavallo della cima affilata del Langtang, simile alla schiena di un cavallo, Ondra e io guardavamo lo splendore silenzioso delle montagne. Ho capito che tutto il romanticismo di quell’esperienza era condensato in quei pochi secondi eccezionali. Tre valli sotto di noi. L’orizzonte verso est, con picchi come il Makalu e l’Everest che si ergevano come piramidi e dall’altro lato, dietro di noi, l’Annapurna e il Dhaulagiri. “Questo è il vero centro dell’Himalaya centrale”. Quella giornata si concluse con una lunga discesa lungo una ripida cresta e alcuni passaggi attraverso seracchi. Il tempo degli dei e del tramonto. Il nostro bivacco era pari all’Hotel Savoy, con vista privata. La mattina dopo, mi dedicai ad aprire un sentiero nella neve profonda e zuccherina, dove per due volte sentii uno scricchiolio sotto i miei piedi, una terrificante avvisaglia che la massa che ci sorreggeva era solo un’illusione. Ondrej lasciò a me l’onore di aprire la via. […] A un certo punto, i seracchi si sono induriti e non avevamo altra scelta che calarci in corda doppia per più di cento metri lungo un canalone che si restringeva come un imbuto. Non c’era modo di evitarlo e la strategia era chiara: era impossibile pensare in che modo farlo, dovevamo solo avere fede che rocce e frammenti di ghiaccio in caduta ci mancassero. Era un momento di nervosismo e rassegnazione al pensiero di cosa poteva accadere. Come dico sempre, quando ci sono solo cattive opzioni tra cui scegliere e il tempo stringe, cerca di avere almeno il controllo di te stesso fino all’ultimo.

Così ci siamo calati in corda doppia simultaneamente, ciascuno sul pezzo di corda opposto, sotto forma di contrappesi. Un errore o l’impatto su uno di noi di pezzi caduti dall’alto avrebbero significato il rilascio automatico della corda e la fine per entrambi. Ma ridurre al minimo l’esposizione muovendoci rapidamente aumentava le nostre possibilità. Bene, le statistiche hanno giocato a nostro favore. C’è stato un solo impatto. Una pietra simile a un meteorite ha colpito Ondrej, causando un buco enorme sul suo casco. Fortunatamente, il sorriso sul suo volto non è cambiato. Nel frattempo, il sole si spostava nel cielo a un ritmo inesorabilmente veloce. Le nostre gole erano secche  e c’erano ancora più di mille metri da scendere lungo un ghiacciaio crepato dal suo stesso peso e ripido. Gradini disposti in modo strano, con profondi buchi tra loro. La conformazione di una cascata ghiacciata, con il tempo si trasforma gradualmente in un caos imprevedibile. Quel giorno ho fatto un’altra delle tante calate in corda doppia. Ho installato quelli che vengono chiamati ancoraggi di ghiaccio Abalakov. Nessuna complessità: ho praticato due fori che si intersecano a circa 45° con una vite da ghiaccio, creando un cuneo di ghiaccio. Ho infilato una fettuccia e voilà, l’ancoraggio era sistemato, pronto per un’altra discesa nelle profondità, fin dove la corda lo consentiva. Scendo giù per una delle tante calate in corda doppia della giornata. Mi sono fermato su un ponte di neve tra due profondi crepacci. Ho continuato, tirando il cavo attraverso il mio dispositivo di calata all’altezza della vita. Quando Ondrej mi avesse raggiunto, avremmo tirato fuori la corda dall’ultimo ancoraggio e avremmo continuato, cercando di sfuggire al miserabile ghiacciaio. Un ‘operazione standard, senza controllare cosa stesse succedendo alle mie spalle, perché comunque non potevo farlo. All’improvviso, ho sentito un urlo e strani rumori, che ho capito immediatamente essere sbagliati, suoni che non appartenevano a quel posto. Il mio cuore si è fermato. Ho urlato, nonostante le mie corde vocali malconce e bruciate dal gelo per la mancanza d’acqua. Nessuna risposta. Ancora e ancora. La mia testa sapeva già cosa era successo, solo l’anima sperava il contrario. Sfortunatamente, la realtà era chiara: le corde erano scomparse nelle viscere del ghiacciaio, dove non avrebbero dovuto finire.

“Ondrej!” Urlo, con voce roca. Nessuna risposta.  Il tempo non passava più, anche se sicuramente non è trascorso più di mezzo minuto. All’improvviso, una voce arriva dal buco infernale, “Aiuto, aiuto!”
Senza pensarci, mi sono trascinato fino al bordo del crepaccio, ho piantato l’ultima vite da ghiaccio nella parete.
“Sto arrivando, Ondrej, tieni duro!”
Senza considerare le conseguenze che in seguito si sarebbero rivelate quasi fatali, volevo raggiungerlo il più velocemente possibile. Era vivo, sarebbe andato tutto bene. Mentre scendevo, la luce diminuiva. Quando ho raggiunto il fondo, tutto era buio. Ma non sapevo ancora da dove era pervenuta la voce. Dall’alto iniziarono a cadere schegge di ghiaccio sul mio casco, staccate dalla mia corda, una delle quali mi ha colpito forte la spalla. Ignorando il dolore, ho continuato. Il tunnel ghiacciato si è ristretto, privandomi di qualsiasi visibilità finché all’improvviso, nell’oscurità, non ho toccaito la sua mano. Un contatto… Ondrej ha urlato: “Tirami fuori, per favore”. Sono passati 10 minuti di inutili tentativi. Ho provato, affannosamente, tirando, invano. Lo spazio era stretto, ghiacciato e scivoloso. Non riuscivo nemmeno a capire come potesse essere intrappolato lì.
Alla fine i pensieri hanno iniziato a fluire in una direzione razionale.. Una cosa che mi impediva di tirarlo fuori era il suo zaino. Ho estratto un coltello dalla tasca del piumino e ho tagliato con cura lo zaino, gettando il contenuto dietro di me nel canale di ghiaccio: sacco a pelo, guanti, giacca e così via. Poi ho sentito un piccolo oggetto rigido, che si è rivelato essere una lampada frontale. Vittoria! L’ho accesa e me la sono posizionata sulla testa. Finalmente, riuscivo a vedere. Un piccolo successo. Poi l’orrore ha preso il sopravvento: Ondrej era incastrato a testa in giù, con un braccio intrappolato. Tirargli il braccio libero era inutile. Alla fine, sono riuscito a fare dei movimenti decisi per liberarlo. In quello spazio minuscolo, ci ho messo circa due ore per girarlo. So che era così poiché era il tramonto quando è precipitato e, mentre lottavamo insieme, era già buio pesto, a parte lo stretto cono di luce

Alla fine, sono riuscito a girare Ondrej verso di me. Entrambi respiravamo affannosamente, esausti.
“Cosa ti fa male?”, chiesi. “Niente.”, rispose. Sollevato, abbassai la guardia.

“Allora dai, usciamo da questa fossa.”
I suoi movimenti erano stranamente rigidi. All’inizio, l’ho attribuito al tempo che aveva trascorso nel ghiaccio, finché non ho capito.
La spina dorsale fratturata e palpebre gonfie che non volevo vedere, annunciavano la cattiva notizia… Non sentiva le gambe e aveva le braccia paralizzate. Non era lucido e rispondeva alle domande in maniera totalmente confusa…

Si stava spegnendo tra le mie braccia… E’ durata ore

Come sono uscito da quel buco infernale e attraversato il ghiacciaio selvaggio il giorno dopo, non ha importanza… Sono qui e colui che mi ha dato questa possibilità voleva che fossi in grado di raccontare questa storia. In cambio, porterò con me il dolore e quelle immagini, fino al mio ultimo respiro.

Mi spiace tanto per Ondra, un ragazzo meraviglioso, un abile scalatore sempre sorridente. Mi perseguita il senso di colpa: perché lui e non io? Questo dolore è solo mio e posso solo condividerlo con gli altri.”

Langtang Lirung I, autunno 2024: Ondra Mrklovsky (sx), Marek Holecek (al centro), 0ndrej Huserka (dx). Fonte FB Holecek