“Ciò che le masse pensano o non pensano incontra la massima indifferenza. A loro può essere garantita la libertà intellettuale proprio perché non hanno intelletto”
George Orwell, 1984
Una domenica. Rientriamo da un facile giro sul Breithorn centrale, con la “scusa” di ripassare periodicamente le consuete manovre di autosoccorso in ghiacciaio. In tanti anni di alpinismo, come “tecnico”, come “esploratore” e anche come studente, ho avuto parecchio a che fare con la materia “ghiaccio”. Di neve e d’acqua. Oggi che sono un po’ fuori dai ruoli tecnici, continuo a dedicare sempre un po’ di tempo alle manovre di sicurezza in ghiacciaio e il mio interesse per questi grandi malati in via di estinzione è semmai cresciuto. Credo da sempre che la sicurezza di cui tanto oggi ci si riempie la bocca con una discreta superficialità, non possa prescindere da un’approfondita conoscenza scientifica del ghiaccio. Così come degli elementi della montagna in genere. Luglio volge al termine e le scene in questo angolo di Monte Rosa, parecchio antropizzato, sono sempre le stesse: decine di cordate verso il “facile” e comodo Breithorn occidentale e sciatori che tirano fino all’ultima discesa dell’ora di pranzo, quando la neve è ormai simile alla polenta che mangeranno di lì a poco al Rifugio delle Guide del Cervino o nei ristoranti di fondovalle. Intorno, fa da quinta l’accanimento terapeutico della neve riportata sui ghiacciai ormai scoperti, neri e sofferenti. Togliamo i ramponi e il materiale di dosso, mentre l’ora è quella canonica dello sbarco dalla cabinovia dei “turisti”, quelli che vengono fin quassù per ammirare il ghiaccio dell’alta montagna. Finché c’è. Qualcuno scende fino all’ablazione del ghiacciaio, segnato con cordoni e paletti per delimitare la pista sicura. Due foto ricordo, un brivido nel vedere poco più in là del sottile filo dei “buchi” neri apparentemente senza fondo. I temibili “crepacci”. Due individui, più temerari, risalgono di qualche decina di metri la pista dove ormai gli sciatori non transitano più. Hanno scarpe da passeggio, neppure da ginnastica. Un abbigliamento forse fuori luogo. Ecco che alcune cordate ritardatarie di rientro vi passano accanto. Qualcuno di soppiatto estrae la macchina fotografica e coglie la coppia in fallo. Un “trofeo” di fine gita da esporre sui social media, come esempio di ciò che non va fatto in montagna. Il tutto per la gioia degli alpinisti per bene, dell’omino della strada e della massaia, che grazie a facebook possono dire anche loro qualcosa sull’etica della montagna, senza comperare le riviste specialistiche come un tempo (di cui peraltro avrebbero ignorato l’esistenza). Ecco che pure in alta montagna ti trovo il “diverso”, che oggi va tanto di moda in questa società di allineati e omologati. La scena peraltro si ripete, e poco dopo scorgo un altro alpinista griffato scattare un’immagine a una signora che scende la stradina di granita pastosa di accesso al rifugio, addirittura con un passeggino che trasporta due cani. Sai che “scoop” sul social media di turno? Quello di: “Gente che va in montagna tre volte la settimana e si sente Kammerlander” oppure su “Mountain Jedi”. E chissenefrega se la maggior parte dei poveretti in questione ha fatto cinquanta metri d’avventura al prezzo di cinquanta sonori “euri”. Qualche pazzo scriteriato che piscia fuori dal vaso ci sarà bene no? Tra questi improvvisati fuori posto! Distinguiamoci bene dai “diversi” quassù, perché è la cultura della sicurezza che lo chiede. Già, la cultura della sicurezza. Peccato che molti di questi “alpinisti per bene”, vestiti ammodo, con scarponi ultimo modello da 400 euro, poco prima io li abbia incrociati in discesa legati come dei pecoroni, e che in numerosi casi avessero la piccozza impugnata all’incontrario, oltre a una sommaria cognizione di movimento con i ramponi ai piedi. Tralascio che a più d’uno mancasse una dotazione di sicurezza minima per la progressione in ghiacciaio. Seguendo la logica malata della caccia al “diverso” di oggi, avrei potuto scattare un bel po’ di foto e darle in pasto a facebook come esempio di persone “pericolose” per la società. Certamente un paio di scarponi all’ultimo grido rassicurano l’opinione pubblica rispetto alla scarpa da ginnastica, del jeans, così come lo zaino da professionista se confrontato con la borsetta a tracolla. L’inganno tuttavia spesso riesce, in quest’era dell’apparenza. Si è sempre detto che l’alpinismo è un fenomeno sociale ed è vero. Ha sempre bene o male seguito le dinamiche culturali del suo tempo, e questo è il tempo dell’informazione veloce, alla portata di chiunque e del giudizio generalizzato, ma soprattutto dell’apparenza e anche del grande inganno. Questa è l’era che ha contribuito a diffondere l’“alpinismo” dell’emulazione spicciola, legata al consenso sociale e ai “like”. In confronto il boom dell’arrampicata-alpinismo “new-wave” anni ottanta impallidisce. In due anni o anche meno puoi ritrovarti “alpinista”, se non proprio “fatto” certamente “spendibile”. I processi consapevoli di avvicinamento alla montagna di un tempo sono stati sbriciolati e resi inutili, la sedimentazione delle informazioni acquisite nel tempo è sparita. La cosa peggiore però è il sistema culturale che accompagna questo nuovo processo, che nostro malgrado dovremo in ogni caso digerire. E’ fin troppo scontato che l’aumento degli amanti della montagna, dell’outdoor e delle discipline tecniche, porti con se un incremento proporzionale dei possibili incidenti. A ben guardare, ragionando entro i termini della proporzione, nulla di diverso vi è rispetto al passato. Ciò che è cambiato in modo davvero significativo, invece, è la comunicazione. Siamo quotidianamente bombardati da post sui social media che parlano di incidenti o di soccorsi in montagna. Ogni intervento, anche per una semplice caviglia slogata, o un mancato rientro, è dato in pasto a un’opinione pubblica che spesso non ha gli strumenti culturali o tecnici per dare il giusto peso e contesto alla notizia. Si sottolinea grossomodo una carenza tecnico-fisica da parte di chi è stato soccorso, o un azzardo. “Colpevole” è chi non ha dosato berne le proprie forze, chi ha smarrito la via, chi ha avuto paura o la sensazione di non farcela, chi ha comunque “azzardato”. L’azzardo in particolar modo non è tollerato, soprattutto quello del neofita. Ogni uscita del soccorso alpino è letta dalla massa come un costo a carico della società, come un rischio inutile per i soccorritori. Si sprecano i commenti e i giudizi forcaioli in cui s’invocano sanzioni, soccorsi a pagamento, divieti, improbabili patentini che attestino una presunta capacità. Il “green-pass” della montagna insomma, che abbiamo già sperimentato di recente in altre emergenze. Qualcuno, però, dovrebbe spiegarmi qual è il limite morale dell’azzardo e quando questo sia tollerabile, che differenza c’è, alla fine, tra un azzardo consapevole e uno meno consapevole. Soprattutto, chi è in grado di giudicarlo, tenendo conto che anche l’alpinista esperto azzarda come azzarda il professionista, perché tutto in montagna è un azzardo e nessuno è esente da errori, salvo poi godere di una “benevolenza” giornalistica e di categoria. L’ambiente mediatico della montagna si sta incattivendo, ed è normale esporre il prossimo alla pubblica gogna sottolineando “colpa” o “azzardo”, con la scusa di fare prevenzione e creare così un deterrente. Il “diverso”, meglio se ben riconoscibile sfruttando i luoghi comuni, è il modello da non imitare. La prevenzione (quella vera), tuttavia, si costruisce con una solida cultura della montagna e della natura che con la “velocità” di quest’epoca ha poco a che spartire: non s’impone con le regole, con i divieti o con le sanzioni. Tanto meno passa dalla logica dell’emulazione e dalla ricerca del consenso pubblico dei “social”. Quello che sfugge ai più, infine, è che questa società oggi non può permettere che la montagna sia ancora quello spazio di libertà gratuita che è sempre stato, dove un po’ di incoscienza, di improvvisazione e anche di errore sono patrimonio vissuto di ogni alpinista definibile “esperto”, dove ciascuno è consapevole che si accettano le regole del gioco. Anche quelle dalle estreme conseguenze. I fenomeni sociali come l’alpinismo sono incompresi dalla società comune e lo sono sempre di meno anche dall’ambiente culturale alpino in cui maturano. Il tutto a causa di un proselitismo e di una comunicazione mal governati. E’ proprio la comunicazione alpina, istituzionale e no, a creare un turbamento emotivo quotidiano che non ha alcuna utilità sana nell’esercitare una qualsivoglia forma di prevenzione ma che minaccia il desiderio naturale di esplorare dell’individuo. Lo stesso ambiente, allora, diventa assuefatto e si allea con la società del controllo, quella che ha la pretesa di decidere sempre e in ogni ambito ciò che è bene, sicuro e salutare per noi. Ne accetta incondizionatamente dettami e soluzioni. La tecnologia, concessa anche gratuitamente, è venduta all’immaginario collettivo come salvifica. Tutti dovrebbero averla per essere salvati in ogni momento. Un modo spicciolo per dare un po’ di coraggio illusorio agli insicuri, a chi in realtà dovrebbe innanzi tutto avere le risorse umane per confrontarsi con la natura quando decide di uscire dalla zona comfort. Un bel modo per sfavorire la riscoperta dello spirito dell’uomo e quelle sua capacità innate che viceversa andrebbero stimolate. Certe tecnologie, infine, favoriscono paradossalmente l’abuso, aumentando il potenziale delle richieste di “elitaxi”, termine che tanto piace al giornalismo bacchettone. Insomma, “l’inganno” della foto della scarpina su ghiacciaio riesce e la caccia al “diverso” è aperta. Attenzione però: un domani potremmo svegliarci, ormai tardi, nell’ambiente che più amiamo a guardare i nostri scarponi ultimo modello “ramponati” e scoprirci tutti “diversi”. Come scrisse un amico, attento osservatore dei fenomeni culturali legati all’alpinismo, da dietro una placca levigata (i ghiacciai saranno estinti) uscirà un bidello con tanto di “patacca”, suonando un campanaccio dorato e urlando: “Ragazzi, la ri-creazione è finita!”. Proprio in quel momento, una signora in jeans, scarpe da ginnastica e borsetta a tracolla, passeggerà tranquillamente sotto il nostro naso.