Quando la montagna trasforma la malattia in una condizione di vita.
Articolo e intervista di Vittorino Mason
Partendo dall’assunto che il prototipo dell’alpinista e dello scalatore anela verso l’alto, verso le vette delle montagne per stare al di sopra di tutto, lontano dagli uomini, più vicino all’assoluto, al proprio Dio, al proprio sogno e a quel senso di elevazione ed immortalità, si potrebbe dire che l’andare verso l’alto non sia che la spasmodica ricerca del senso della vita, nonché di liberarsi della pesantezza terrena per ritrovare una leggerezza perduta.
Ecco perché certuni sono disposti a prendersi grossi rischi e anche a morire pur di vivere e rivivere l’esperienza, quella dimensione di avventura, distacco, adrenalina e leggerezza che sta nell’accedere alle rupi del cielo.
Superuomini con un super ego che fa credere loro d’essere immortali, almeno fin quando qualcosa non gli fa perdere questa certezza, alpinisti con un super Io che sfidano le altitudini, la forza di gravità, i pericoli e le avversità atmosferiche in luoghi non propriamente facili come le montagne, uomini che portano nello zaino anche le proprie paure, qualcosa per coprirsi e sfamarsi, il peso e la caducità della vita.
Ma una cosa è fare come dei Paul Preuss, salire e scendere senza corda le pareti rocciose credendosi degli angeli e con un Dio sempre lì, pronto ad allungare la mano in caso di pericolo e bisogno, un’altra è andare in alto con la consapevolezza che poi bisogna scendere portando nella quotidianità tutta la bellezza e la forza di quell’esperienza.
Se poi qualcuno nello zaino, oltre ai materiali della normale dotazione alpinistica, ci deve mettere anche qualcos’altro che, a parte il peso, diventa un impegno costante per regolare il metabolismo corporeo e consentire un’ascesa serena, beh, allora i superuomini, coloro che si sentono angeli eletti devono ricredersi sulle proprie capacità e sull’elitario status di arrampicatori.
Ci sono uomini non vedenti, senza una gamba, senza un braccio, delle dita di mani o piedi, con disfunzioni e malattie che scalano montagne molto alte e percorrono vie alpinistiche anche impegnative. Uno di questi è Marco Peruffo, vicentino, classe 1969, alpinista affetto da diabete DMT1 (insulino-trattato dal 1979), figlio d’arte con all’attivo numerose salite e ripetizioni nelle Dolomiti e nelle Alpi, per non parlare poi delle spedizioni extraeuropee che l’hanno portato sulla vetta dell’Acconcagua, del Kilimanjaro, del Monte Kenya, del Pik Lenin e del Cho Oyu, dove è stato il primo alpinista diabetico italiano ad aver raggiunto la cima di un ottomila.
Laureato in giurisprudenza, dipendente pubblico presso l’A.S.L. di Vicenza, sposato con Sara e padre di due bambini, per lui il diabete è stata come una molla, il movente per mantenere la forma fisica, praticare l’alpinismo, allenarsi e correre per tenere sempre sotto controllo il tasso glicemico. Quello che per molti potrebbe sembrare una maledizione, un fardello da portarsi sulle spalle per tutta la vita, Marco l’ha trasformato in un’occasione per conoscersi più profondamente, per imparare ad ascoltare il proprio corpo e a gestire situazioni difficili.
Non è facile farsi un’iniezione di insulina quando sei appeso ad una corda in piena parete o su un ripido pendio di neve o su una cresta a 20 gradi sottozero e neppure quando sei a ottomila metri.
Eppure Marco, col suo autocontrollo, la grande capacità di gestione e la sua indole pacata ed aperta, sa rendere quello che potrebbe essere una situazione da mandare in panico qualsiasi uomo, in un attimo di routine quotidiana. Questione di abitudine e di esperienza, ma anche di un carattere determinato che l’ha portato a raggiungere méte impegnative per chiunque.
Conosco Marco dal lontano 2003, ma non siamo mai andati in montagna assieme. La proposta di una via di cresta è stata l’occasione per conoscerlo meglio, da vicino, nella sua intimità, nella sua condizione di alpinista diabetico. Poter essergli compagno è stato un piacere, vederlo iniettarsi una siringa di insulina nella pancia o misurarsi spesso il tasso glicemico e assumere liquidi e zuccheri e poi osservarlo muoversi con eleganza e proprietà di tecnica alpinistica, un onore.
Questa intervista è il minimo per ringraziarlo della sua disponibilità e per quanto, con il suo esempio, può essere di stimolo per i giovani che si trovano nella sua stessa condizione e per coloro che, credendosi superuomini cercano l’elezione nei cieli dimenticando di vivere sulla terra.
Gli uomini non solo corpi performanti, ma anche esseri vulnerabili che, nonostante la loro limitatezza nello spazio-tempo dell’esistenza, possono imparare anche ad accettare i propri limiti e a volte superare ostacoli che sembrano invalicabili.
Vie di roccia
Il numero delle salite effettuate di stampo classico è notevole: Tre Cime di Lavaredo Cima Grande:
“via Comici-Dimai”; Punta Frida: spigolo Giallo “via Comici-Varale”; Croda dei Toni, parete est
“via Castiglioni”; Rocchetta Alta di Bosconero: “via KCF”, “via Navasa”, “Spigolo Strobel”;
Tofana di Rozes: primo spigolo “via Pompanin-Alverà” e secondo spigolo “via Costantini-
Ghedina”, “via Costantini-Apolloni”; Gruppo di Fanes: Cima Scotoni “via dei Fachiri”, “via degli
Scoiattoli”; Civetta: Trittico della Torre Trieste “via Cassin”, “via Carlesso”, “Spigolo Tissi”,
Busazza: “spigolo Videsott-Rudatis”, Castello della Busazza: “via Messner”, Cima Su Alto: “via
Ratti-Panzeri”, Parete Nord Ovest: “via Solleder-Lettembauer”, “Diedro Philipp-Flamm”, Punta
Civetta “via Aste-Susatti”, Torre Val Grande: “via Carlesso” e “via Pollazzon ‘delle Guide’ alla
parete est; Marmolada: Parete sud: “via Coda di Rondine”, “via Don Quixotte” “via Vinatzer-
Castiglioni”, “via Gogna-Dorigatti”, “via dei Sud Tirolesi + variante Messner”; Pale S. Martino:
Trittico del Sass Maor: “via Detassis-Castiglioni”, “via Biasin-Scalet”, “via Solleder-Kummer”;
Cima Canali “Fessura Buhl” e “spigolo Castiglioni” alla Pala sud; Cimon de la Pala: “Spigolo
Nord-Zecchini” e “via Andrich-Varale”; Agner e Pale di S.Lucano: “Spigolo Nord: via Gilberti-
Soravito”, “Diedro Casarotto-Radin alla II Pala di S. Lucano”; Dolomiti di Brenta: Crozzon di
Brenta: “via delle Guide”, Cima Tosa: “canalone Neri”, Brenta Alta: “via Detassis-Giordani”, Croz
dell’Altissimo: “diedro Armani” e “via Detassis-Giordani”; Pizzo Badile: “Parete nord, via Cassin”
e “spigolo Nord”.
Attività in alta quota
Barre des Ecrins;Weissmies; Dome de Mischabel, Monte Rosa (cresta Signal e cresta del soldato); Castore; Polluce; Breithorn; Bishorn; Cervino (traversata italiana-svizzera); Grandes Jorasses, per la cresta di Hirondelles; Auguille de Bionnassay; Mont Blanc di Tacul, Mont Maudit per la cresta Kuffner; Piz Bernina (via Biancograt); Gran Paradiso (parete nord); Monte Bianco
Esperienze extraeuropee
Sud America: Nevado Urus 5495m, Nevado Ischinca 5553m, Nevado Pisco 5756m, Nevado Alpamayo 5946m (parete ovest via dei Ragni di Lecco), Nevado Tocllaraju 6032m, Nevado Ranrapalca 6132m (antecima), Cerro Aconcagua 6962 m.
Africa: Kilimanjaro 5985m (via Marangu), Monte Kenia 5199 m (cresta nord, via Francese)
Nepal: Cho Oyu 8201m, Amadablam 6856m, Shisha Pangma 8027m (tentativo)
Pakistan: Broad Peak 8047m (tentativo)
Kirghizstan: Pik Lenin 7134m
L’intervista
Quando hai scoperto di essere diabetico e come l’hai presa?
All’età di dieci anni, in modo inconsapevole ma naturale perché era una patologia ben conosciuta in casa, una sorta di “malattia di famiglia” in quanto sia mio padre che una zia paterna ne erano affetti già da qualche anno. L’elemento scatenante fu una banale mononucleosi verso il Natale del 1979 con un conseguente ricovero in ospedale. Da lì iniziò un percorso nuovo. Pensa, nell’incoscienza di bambino, in un primo momento, fui quasi felice del “mio” diabete perché così avrei potuto assomigliare un po’ di più a mio padre, una luce che non è mai tramontata, nemmeno dopo la sua morte.
Ti consideri uno svantaggiato?
Direi di no: piuttosto una persona con delle regole quotidiane ben precise che scandiscono il tempo della giornata in stretta correlazione con le attività che svolgo.
Che tipo di diabete hai?
Soffro di diabete di tipo 1 insulino-trattato che rientra nella categoria delle malattie autoimmuni perché è causata dalla produzione di autoanticorpi (anticorpi che distruggono tessuti ed organi propri non riconoscendoli come appartenenti al proprio corpo ma come organi esterni). Questi autoanticorpi poi attaccano e distruggono le cellule Beta che all’interno del pancreas sono deputate alla produzione di insulina. Da qui sorge la necessità di più infusioni di insulina al giorno per mantenere sotto controllo la glicemia.
E la possibilità di trasmetterlo ai tuoi figli non di fa sentire in colpa?
Non lo definirei un senso di colpa, piuttosto un timore: se uno o ad entrambi dei miei figli dovesse insorgere il diabete avrebbero a disposizione due genitori preparati per supportarli con determinazione e le conoscenze necessarie. Oltre alla mia esperienza di vita i miei figli potrebbero contare su di una madre biologa e consulente nutrizionista.
Marco Peruffo controlla la glicemia sul diedro Phillipp Flamm
Comunemente il diabete viene considerato una malattia, per te cos’è?
Il diabete non è una malattia immediatamente invalidante come la cecità o la mancanza di un arto: si tratta piuttosto di una patologia cronica e per questo motivo subdola. Infatti se non curato, le complicanze del diabete possono portare, nel tempo, anche alla cecità o all’amputazione di un arto, o all’arteriosclerosi, o ancora, a gravi forme di nefro e/o cardiopatie. Preferirei dunque riferirmi al diabete come ad una condizione di vita che ti costringe a regole e ritmi di vita precisi, ma acquisendo ampi margini di conoscenza e di autogestione non ci sono limiti ai propri sogni.
Il diabete ti condiziona la vita?
Per rimanere nell’ambito dell’esperienza alpinistica, il diabete si è rivelato il comune denominatore per scoprire e vivere delle esperienze che hanno ampliato i miei orizzonti (ma anche quelli di molti altri provetti alpinisti con diabete) oltre il semplice movimento fisico, interagendo con altre dimensioni più intime e personali, dimostrando in ogni caso, prima di tutto a me stesso e solo poi indirettamente agli altri, la validità e l’efficacia dell’empowerment, cioè della consapevole capacità di autocontrollo ed autogestione del diabete. Se non impari a conoscere fino in fondo le regole del “gioco”, il diabete alla lunga te le impone. Dietro ad ogni salita che mi ha impegnato, si celano innumerevoli errori, fermi e ripartenze, cambi di strategie e tanta, tanta gradualità e perseveranza.
Segui una dieta particolare?
Qui dovrei lasciar parlare l’esperta di casa, mia moglie, che propone ed organizza un’alimentazione sana per tutta la famiglia! Sono goloso e quindi mangio di tutto un po’ a geometria variabile, nel senso che cerco di diminuire le quantità di cibo nei periodi di minor attività fisica e mangiare con più libertà quali-quantitativa nei periodi di punta. A casa si privilegia la genuinità e qualità delle materie prime, meglio se a chilometro zero, a discapito di piatti elaborati, ricchi di salse e condimenti vari. Non sono vegetariano in senso stretto, né vegano: si mangia poca carne e uova, molta frutta, verdura, cereali integrali e pesce: poco il formaggio, lo stretto necessario per soddisfare il palato, mentre approfitto dei dolci in caso di ipoglicemia.
Come sei arrivato alla montagna?
La Montagna è sempre stata di casa grazie alla passione trasmessa dai miei genitori, in particolar modo da mio padre Giuseppe “Bepi”: la Montagna ha sempre accompagnato la vita dei miei genitori, così come delle mie quattro sorelle, con momenti ed aneddoti, alcuni emozionanti, alternati da altri più tragicomici quando, da ragazzi, si era cooptati a partire con tempo bello o brutto, caldo o freddo! Ora questa passione si sta tramandando alla terza generazione di casa Peruffo con i nipoti, mentre per i miei figli è ancora troppo presto: fanno nove anni in due!
Chi è stato tuo padre?
Per me una luce, un romantico, un fervente credente e sempre socialmente molto impegnato. E’ stato un valente alpinista nel dopoguerra, tra gli anni ’50 e ’60 ha ripetuto centinaia di vie, molte in Dolomiti, alcune di prestigio ancor oggi. Istruttore Nazionale di Alpinismo dal 1954 (in quell’anno Direttore del Corso era Riccardo Cassin e tra gli istruttori figurava un certo Cirillo Floreanini!). Nel 1955 ha rifondato la Scuola sezionale di Alpinismo “Umberto Conforto” a Vicenza. È stato Consigliere Centrale del CAI dal 1965 al 1970, Presidente della Commissione Centrale per le Pubblicazioni nel medesimo periodo e Presidente della Sezione C.A.I. di Vicenza ininterrottamente dal 1964 al 1972. Era anche un’ecologista ante litteram, tra i primi ideatori e promotori dei gruppi di Tutela Ambiente Montano T.A.M. in seno al C.A.I. ed attivista in prima persona in molte battaglie a salvaguardia dell’ambiente e delle popolazioni montane a cavallo degli anni ’60 e ’70.
A parte tuo padre, c’è stata un’altra figura che ti ha introdotto alla montagna e trasmesso la passione per l’alpinismo?
L’amico, il compagno, la “mente” di tante belle ed intense avventure, il compaesano Giampaolo Casarotto (sei cime di 8000 metri all’attivo by fair means). Il sodalizio con Giampaolo ha scandito la cosiddetta “età d’oro” del mio andar per crode e soprattutto grazie a lui ho scoperto e superato tanti limiti mentali e fisici in anni nei quali parlare di situazioni di disagio e/o malattia ed alpinismo erano un tabù tanto nel consesso medico-scientifico, che in quello alpinistico dove machismo e grado tecnico erano gli unici ordini di grandezza e di considerazione/reputazione tra gli alpinisti.
E un alpinista che è assurto a modello da emulare?
Walter Bonatti senza ombra di dubbio: un modello sicuramente, ma non da emulare sennò la mia carriera alpinistica amatoriale sarebbe stata assai breve. Bonatti possedeva una rettitudine, una coerenza, uno stile puro, pulito, minimalista da renderlo immortale, un vero antesignano dell’alpinismo moderno precorrendo i tempi per consacrarlo direttamente alla contemporaneità dei grandi di oggi, ispirando le realizzazioni dagli anni ’70 in poi: Reinhold Messner, Jerzy Kukuczka, Alex Macintyre, per arrivare a Jean-Cristophe Lafaille, Mick Fowler, Marko Prezelj, Steve House e molti altri ancora.
Chi sono i tuoi compagni di scalate?
Oggi che ho rallentato molto l’attività per via del lavoro e della famiglia in crescita, mi accompagno a qualche collega dell’Ospedale, a mia moglie Sara, a qualche nipote “impietosito”, all’intramontabile Giampaolo e poi agli amici di una vita: Michele Piccolo e Paolino Seraglio su tutti.
Se in montagna sei da solo riesci a gestire una crisi glicemica?
Frequento la Montagna raramente da solo per una questione di sicurezza. Mi piace molto la solitudine e mi muovo così solo sulle montagne di casa, le Piccole Dolomiti Vicentine, a piedi o con gli sci, mai in parete. Sono sempre equipaggiato per fronteggiare sia eventuali crisi ipoglicemiche (calo repentino della glicemia) che il suo contrario, l’iperglicemia. E’ comunque strategico intrepretare i segnali prodromici ad una crisi per contenerne gli effetti successivi: mi riesce spesso ma non sempre.
Cosa significa per te praticare l’alpinismo e qual è il terreno che più ti si addice?
Amo la Montagna in ogni sua stagione e vissuta in qualunque dimensione. Prediligo però l’arrampicata su roccia e le salite in alta montagna, mente nelle gite di scialpinismo preferisco aggregarmi a compagni ed amici più esperti di me.
Qual è l’elemento della montagna che più ti emoziona?
A dire il vero non c’è un elemento in particolare: la Montagna è lì che ti aspetta e ti parla, magari perde i pezzi per l’effetto serra e l’innalzamento termico globale, ma le sensazioni sono mutevoli a seconda dello stato d’animo dell’alpinista che vi si accosta in quel dato momento. Per esempio una volta puoi apprezzare l’aerea esposizione di una bella via di arrampicata temendo un temporale, mentre lo stesso temporale lo puoi apprezzare la notte che precede una salita impegnativa e che temi, creando così la giustificazione “onorevole” per desistere e salvare l’orgoglio!
E l’esperienza in montagna che ricordi con piacere?
La prossima!
Hai fatto parte dell’associazione ADIQ “Alpinisti diabetici in quota”, cosa ha significato?
Si è trattato di un’utopia tramutata in realtà, tra il 2001 ed il 2013. Un progetto sfidante realizzato da un microgruppo di cinque appassionati che sono riusciti a realizzare molti viaggi in giro per le Alte Terre del mondo e poi, a “socializzare” l’intensità delle esperienze acquisite organizzando campiscuola motivazionali, in ambito di diabete e sport, riservato ai giovani con diabete. Con eventi denominati Snowdiab e Diabtrek, in inverno e in tarda estate, per alcuni anni abbiamo portato in giro per monti tanti ragazzi, abbiamo condiviso con loro strategie, metodi e terapie di cura del diabete, cercando di aiutarli e di motivarli ad una pienezza di vita attiva ed immersi nella natura. Ora quei semi hanno contaminato altri sognatori e convinti educatori, germogliando con l’Associazione Diabetici Alessandria Junior –J.A.D.A.- e con il gruppo spontaneo denominato “Diabete ed Alta Montagna”-D.A.M. ideato dall’infaticabile medico diabetologo ed alpinista, prof. Aldo Maldonato di Roma.
Sei stato il primo alpinista italiano diabetico a raggiungere un ottomila.
Sì, al primo colpo nel 2002, una fortuna sfacciata che poi non si è più ripetuta. Da lì si è innescato però un felice periodo di fantastiche esperienze e viaggi in giro per il mondo, scalando o provandoci con il massimo dell’impegno e della fatica.
Al Broad Peak e al Shisha Pangma però non sei riuscito ad arrivare in cima.
Non tutte le ciambelle escono con il buco! Sul Broad Peak nel 2004 ci siamo fermati poco sopra il campo 3, ad una quota di 7600 mt. circa per pericolo di valanghe, mentre nel 2012, sullo Shisha Pangma, per le cattive condizioni atmosferiche di nebbia e neve non siamo nemmeno giunti al colle dove inizia la cresta finale della via normale. In Montagna ci vuole molta fortuna e fatalismo nel rinunciare. Il bello poi è che, in caso di rinuncia, si torna a casa con più voglia di scalare rispetto a quando si è partiti.
Hai partecipato a un’edizione del trofeo Mezzalama e a molte maratone di cui nove portate a termine, è questo il modo per tenerti in forma?
Tengo a precisare: che mi tenevo in forma. Ora corro e scio molto meno ma la sostanza non cambia. L’alpinismo mi ha fatto scoprire la corsa, sia su strada che in montagna, così come lo scialpinismo. Praticare tanta attività aerobica è la base per aumentare la cilindrata del proprio “motore” cardiovascolare per andare forte e per tanto tempo, oltre che a rivelarsi un’efficacissima terapia per la buona gestione del diabete: tiene infatti il peso corporeo controllato, ti mantiene una altissima sensibilità all’insulina e quindi la rende molto efficiente nel rapporto con i carboidrati introdotti.
C’è stato un momento della tua vita che hai avuto molta notorietà, ma anche critiche gratuite.
Sì, qualche passaggio televisivo, qualche articolo di giornale e sulle riviste specializzate perché un 8000 by fair means, da parte di un alpinista con diabete, faceva notizia: in fondo si trattava pur della seconda prestazione in altissima quota da parte di un alpinista con diabete a livello mondiale. Quella stessa notorietà che mi permise di raccogliere finanziamenti per quasi dodici anni consecutivi per realizzare non solo i viaggi, ma anche i campi scuola motivazionali per ragazzi, è stata la causa di alcuni miei errori, ingenuità, ma anche invidie e qualche cattiveria gratuita. Per fortuna è acqua passata, sono ritornato alla dimensione che più mi si addice, quella domestica, dove la passione è rimasta inalterata e morde come un tempo, con la differenza che oggi realizzo solo ciò che mi diverte accompagnandomi a persone care ed amici.
Hai un buon rapporto con diversi ex presidenti del CAI. Chi in particolare?
Più che di buoni rapporti oserei parlare di riconoscenza: verso Gabriele Bianchi che nel 2002, nell’anno Internazionale della Montagna, credette al Progetto A.D.I.Q. “Ascensia-Cho Oyu” patrocinandolo e facendoci assegnare il finanziamento per la sua realizzazione. Poi ho avuto l’onore di incontrare al Film Festival di Trento Roberto De Martin che per stima e affetto lo considero ideale anello di congiunzione tra l’alpinismo, l’impegno sociale ed ambientalista ai massimi vertici del CAI tra la generazione di mio padre e la mia. Ho anche un grande rimpianto: non aver potuto conoscere e coinvolgere in qualche progetto di diabete ed alpinismo il prof. Annibale Salsa, ideatore e promotore della montagna terapia, oggi in auge grazie al suo fondamentale ed illuminante contributo intellettuale ed organizzativo, promanato dalla presidenza Generale a tutte le sezioni del CAI.
Come concili lavoro, la famiglia e montagna?
Con tanto sacrificio da parte dei miei familiari e cercando di limitare ambizioni e sogni. Vivo una fase di transizione sia personale che familiare e lavorativa: sto rallentando molto ma non voglio assolutamente mollare nella speranza di mantenere una longevità sportiva per rubare qualche altra bella stagione ed avventura alpinistica all’età che avanza, prudentemente consapevole che pesano sulle spalle oramai 39 anni di onorata convivenza con il diabete!
Tu leggi molti libri di montagna. C’è un autore che ti piace particolarmente?
In verità ce ne sarebbero tre: Walter Bonatti per i motivi già detti, Reinhold Messner per la capacità introspettiva di scandagliare l’animo dell’alpinista e poi Robert MacFarlane per delicatezza e profondità di pensiero.
Hai un sogno nel cassetto?
Poter trasmettere passione e leggerezza ai giovani, perché sono salvifiche.
E un consiglio da dare ad un giovane che si trova nella tua stessa condizione?
Non arrendersi di fronte alle difficoltà, trovando sempre una via d’uscita, una soluzione per decifrare il rebus che si para davanti. Per me l’alpinismo ha racchiuso tutto ciò e molto di più: anche ribellione, mancanza di fiducia in me stesso e desiderio di libertà. È essenziale non sentirsi mai perduti ne minimizzare situazioni di disagio, perché dalla fallibilità e dalla vulnerabilità si possono trarre grandi punti di forza e perché dietro ad ogni errore è insito il miglioramento, a patto di non perdere di vista il proprio filo nel dedalo della vita, proprio come Teseo.
Vittorino Mason