Ogni mattina salgo verso il colle di Creto, vedo spuntare l’alba e mi soffermo scrutando il Tutto: le Alpi, l’Appennino, il grande mare Nostrum… l’aria.
Ciò che ogni giorno cerco, non è la fine di tutta quell’immensità, ma l’inizio.
Desidero evolvermi; sento la necessità di andare oltre e ancora Oltre, nel mio cammino.
Einstein teorizzò un’universo finito, ma infinitamente percorribile: cerchiamo angoli di felicità in un mondo sferico; ragioniamo provando a concepire l’infinito, con una mente finita.
Gea, la nostra madre terra, è l’archetipo di universo: osserviamo l’orizzonte alla ricerca della fine di qualcosa, inciampando solo in molteplici indizi. Il punto da cui osserviamo il globo, equivale ai misteriosi confini del mondo per chi sta dall’altra parte.
Il punto in cui sono, equivale all’altro capo dell’universo per chiunque.
Per capire me stesso, dovrò arrivare al limite e percepirmi da lontano; di nuovo in Africa, di nuovo all’inizio.
Marocco, deserti ed entità che si avvicendano; in questa porzione di est continentale, a ridosso dell’anti atlante, tra il Sahara e le montagne più alte del nord, oltre i 4000 m.
Mi perdo tra l’indaco del cielo e il profondo nero degli occhi di queste genti, così varie e così piene di segreti.
Ricerco pareti e sentieri; l’anno prossimo tornerò per condurre trekker attraverso queste valli e per aprire nuove vie di roccia e canyon; per dare sfogo alla mia curiosità, una tela bianca piena di pennellate che oggi stendo e che fra 300 giorni prenderanno colore.
Cammino, come sempre un passo dopo l’altro, tra sentieri inesistenti eppure tracciati dalla mia storia alpina.
Assaggio miele di cactus, imparo a risalire alberi con le capre, dialogo con pastori e commercianti; scambio parole ogni molti chilometri, eppure sembrano così tante in questo nulla pieno di tutto.
Imparo il mare…
…e la tradizione, che si fa gusto di menta, e odore di reti stese al sole.
Sondo le pareti e il mio corpo. Ho ancora il veto: non potrei sfiorare roccia fino a giugno, figuriamoci scalare trad… Così salgo, come un danzatore di ferro immerso per mesi in acqua di mare. Non uso il braccio destro, se non per accompagnare la corda, così che non si senta sola quaggiù.
Arrampico con la mano sinistra; prendo confidenza molto lentamente grazie ai miei esperti compagni. Un giorno in sicurezza, uno un poco più ardito, poi finalmente mi sento in grado di arrampicare, per quanto a metà.
Se avessi ancora qualche dì, sarei quasi me stesso.
Nell’arancione totale, tra quarziti e graniti, riscopro nuova arte di chi ha preso in prestito echi di cielo, per rincuorare la terra; risalgo le linee erotiche di questi amanti fuggiaschi, la volta e la piana.
Qualcuno asserì che gli strapiombi fossero pianure al contrario; mi domando io cosa siano allora questi sassi nella realtà, quella storia segreta inscritta nelle ombre delle pieghe di quella ufficiale?
Nella mente i frame dei tanti luoghi che ho vissuto, i giacigli in cui mi sono steso, i respiri che ho avuto la fortuna di sostenere. Così simili e così distanti, incendiano la mia evoluzione, poiché sono le affinità a fare le differenze; ciò che mi crea al servizio degli altri, niente più di questo.
Mente mia torna alla carne.
Anche in questo luogo avvinghiati all’acqua, come muffe senzienti; anche in questo istante noi stessi.
Un nuovo inizio, una volta ancora.
Tornerò in Europa pronto per ripartire per la Groenlandia, per nuovi cammini e altre esplorazioni.
Tornerò cosciente, un frammento in più; lascio questo coriandolo di percezione tra il deserto e l’arrivederci, tornerò qui fra un anno, per riprendermi la pianta che grazie a quel seme avrà germogliato, Oltre ciò che oggi sono.