I cinque alpinisti spagnoli, età media 52 anni, hanno affrontato questa impressionante parete dell’Himalaya indiano scalando lo sperone Sud-Ovest, attraverso la via “Stairway to heaven” e la “Via degli Scozzesi”, in stile capsula, con un attacco finale di 43 ore senza sosta
Lo scorso 26 settembre, alle 9 del mattino (ora locale), José María Andrés “Chemari”, Mikel Sáez, Rubén Pérez “Ino” e Álex Kammerlander hanno scalato il Bhagirathi III (6.454 m). Gli spagnoli hanno salito la prima parte della via Stairway to Heaven e la parte superiore della Via degli Scozzesi, aperta da Bob Barton e Alan Fyffe nel 1982.
Come spiegano, la loro idea originale “era quella di scalare Stairway to heaven del 2004, che corre lungo uno sperone molto estetico e che poi si dirige verso la via scozzese”. Questa via, aperta diversi anni fa dai tedeschi Jörg Pflugnacher e Walter Hoelzler, nota anche come “Via tedesca”, non conta ripetizioni. Si compone di oltre 30 tiri e presenta difficoltà fino al 7b (scala francese); i suoi apritori affrontarono lastre di ghiaccio e cattive condizioni in cima e non riuscirono a chiudere la linea, facendo un pendolo e una traversata per deviare verso la Vía degli Scozzesi, con la quale raggiunsero la vetta. Terminare direttamente questa linea – un progetto precedentemente tentato senza successo da altri alpinisti – era l’ambizioso obiettivo che il team spagnolo si era prefissato.
Durante i primi 20 giorni della spedizione la squadra ha lavorato su Stairway to heaven “arrampicando, fissando corde, dormendo in portaledge, con tempeste di neve, furti di cibo da parte di qualche avida donnola e diverse indisposizioni dei vari membri”, racconta Chemari.
Il team ha allestito un campo ai piedi della parete (a circa 4800 m), un primo campo con portaledge a 5350 m e un secondo campo con portaledge a 5500 m. Anche loro però hanno trovato condizioni precarie e soprattutto erano consapevoli che nel poco tempo a disposizione era impossibile proseguire con il loro progetto iniziale, quindi hanno deciso di dare priorità alla vetta e di salire nella sezione alta della montagna attraverso la Vía degli Scozzesi.
Partiti il 25 settembre alle 2 del mattino dal secondo campo allestito a 5.500 metri, hanno risalito i 400 metri di corda fissa che avevano installato e dopo un attacco finale di 43 ore senza sosta (senza materiale da bivacco) hanno raggiunto la cima (6.454 m) e sono tornati al campo portaledge, calandosi lungo la via scozzese, effettuando un totale di 22 calate (le spedizioni in vetta di solito scendono dal versante nord). Gli spagnoli hanno rimosso tutte le corde fisse, senza lasciare traccia del loro passaggio in parete.
Il giorno successivo, il 27 settembre, hanno terminato la discesa “Senza più cibo e caffè nello stomaco, abbiamo smontato il campo di portaledge e continuato la discesa fino al campo avanzato. Siamo arrivati come zombie, ma felici di esserci aggiudicati la cima del Bhagirathi III malgrado i corpi martoriati”.
Alex Kammerlander, ha riportato le ferite maggiori ed è ancora ricoverato all’ospedale San Jorge di Huesca per il congelamento delle dita dei piedi.
Il bilancio finale è un’eccezionale scalata di circa 1400 metri di via, combinando arrampicata libera e artificiale con arrampicata mista e alcuni tratti di ghiaccio, con difficoltà di 6b+/A2, M5+, 80º.
Durante la spedizione il team non era munito di telefono satellitare, ma di un dispositivo InReach con il quale hanno potuto consultare il bollettino meteorologico.
“L’età media del nostro gruppo di cinque persone era di 52 anni, e questo grazie a Ino, che la abbassa un po’... – scrive Saez nel suo blog – . Età a parte, questo gruppo di alpinisti veterani era entusiasta di un grande progetto che potesse riaccendere sensazioni dimenticate.”
“Valuto molto positivamente la spedizione – continua Saez – Il nostro compito principale era quello di tornare tutti sani e salvi, e questo obiettivo è stato raggiunto. Oserei dire che il nostro rapporto è stato perfetto, ci conoscevamo appena prima di iniziare questa avventura e siamo tornati buoni amici. Sono orgoglioso e felice del lavoro che abbiamo fatto sulla montagna. Sicuramente avremmo potuto fare meglio, forse più velocemente. Vent’anni fa, quando eravamo più giovani, avremmo affrontato una spedizione sul Bhagirathi III in modo diverso. Riuscire a raggiungere la vetta, nel mio caso all’età di 55 anni, non è solo un sogno, ma uno stimolo a continuare…”.