Ultimi minuti al lavoro; parlo con Ale, uno dei più forti trail runner italiani, (anche se lui ovviamente mi direbbe che non è così) e, dopo anni che non faccio ultra, gli domando due consigli.
Esco, passo a prendere la fidanzata, e mi dirigo a levante. Nel tragitto proviamo a gestire alcune situazioni difficili e dolorose. Ho avuto due lutti in questi giorni, persone che non frequentavo spesso, ma a cui volevo molto bene, e ci sono diverse questioni da affrontare.
Dopo il “breve”viaggio son di nuovo solo. Esco dalla macchina e mi dirigo verso il Fasce, la montagna che sovrasta Genova e che usavo anni fa come test per capire il mio stato di forma. Prendo i bastoncini telescopici e senza cambiarmi parto a correre. Indosso capi di cotone, pesanti, suderò molto, purtroppo; ho anche uno zainetto tutt’altro che leggero… almeno è finita la moda del ferro da stiro!
Sulla sella terminale due amici di buona gamba stanno salendo: ho in mente di raggiungerli in discesa e fargli una sorpresa all’arrivo, che penso gradiranno.
Iinizio a correre mentre la notte cala e il sentiero di mille colori e cento profumi, scambia una tinta sola per mille essenze. I miei occhi da predatore diurno si abituano, scorgendo molte tonalità di un unico nero; il mio naso invece sboccia e alle nari giunge una molteplicità di gusti.
L’aria umida é fresca coda di pavone; le brezze m’appaiono come antiche lingue portate dal vento che carezza i miei pensieri, miscelati tra fantasie endogene e mesmerismi di sconosciute vite.
Supero la prima cuspide arrotondata e osservo le vicine Alpi Liguri, incipit dalle grandi livree delle più severe Marittime. Uno sguardo al tempo: sono ampiamente sotto il limite che mi sono prefissato, benché molto più lento di ciò che ero anni fa, allenato e vestito di tutto punto. Qui venivo a correre, inseguendo mandrie di cavalli oramai abituate alla mia presenza, senza frontale, solo fiato e anima.
Mi fermo a fare qualche foto, un’imprecazione per un corridore, una necessità imprescindibile per me. Mando a Elena le immagini, perché siamo comunque insieme e ricomincio a salire. Corro ancora fino all’accentuarsi della pendenza, dopodiché marcio svelto e costante.
Arrivo all’unico bivio della salita: tiro dritto sul crinale, evitando il taglio basso che a sinistra mi condurrebbe a mezzacosta: affronto la diretta, il percorso integrale. Dall’anticima scendo alla sella e risalgo ancora; poco sotto la vetta scorgo due luminescenze, i miei amici.
Saluto, un bacio a testa, e via verso la cima che in breve “conquisto”. Grazie amica mia di avermi permesso di ascendere ancora una volta. Non è ancora il tempo di scambiarsi la stretta di mano, nemmeno con me stesso: le salite in montagna finiscono a casa, mai darsi la mano prima o si perde concentrazione.
Scrivo a chi sta giù, altre foto e via di corsa. Questo itinerario è studiato tra le 2 ore o al massimo le 2 ore e mezza a salire e altre 2 scarse a scendere. Mi sono prefissato di farlo in un ora e mezzo fra andata e ritorno: prima impiegavo meno tempo; ora non sono in condizione, ma mi conosco e so dove possa spingermi.
Scendo in picchiata, cabro risalendo sulla prima cuspide e volo sul primo ghiaione; procedo sulle lastre di marna che su queste pendenze, con l’umido serale, sono come saponette. Sorrido pensando che qui venivo anche in bici, rimanendo proprio sulle pietre, evitando i solchi che purtroppo le gomme delle moto da trial creano.
Accendo la frontale e acquisto ulteriore velocità: supero gli amici e in picchiata deliro nel bosco; mi sento un lupo ed è un modo di vivere che adoro, che mi fa stare bene.
Le roverelle son zitte: piene di linfa, non vibrano al vento fischiando come in autunno. Il sentiero senza foglie è sordo, ma rimbombante e i bivi muti attendono; scorro su di essi come una folata e sparisco quasi ch’io non sia, come dovrebbe essere.
Arrivo all’asfalto, di nuovo in città, ma non mi fermo: corro, più veloce che posso, ma arrivo tardi!
Non son stato abbastanza veloce: volevo comprare tre pizze e tre birre e festeggiare il momento nel bosco, ma così non è. Questa era la sorpresa. Ritorno indietro e raggiungo l’attacco del sentiero e lì mi fermo.
Tempo? Un’ora e mezzo tra andata e ritorno. 56 minuti per salire, pause fotografiche, e il resto per far cifra tonda: nessuna mancia. Per tornare com’ero ce ne vorrà, ma la base è buona e sono molto più addestrato. Ora devo solo mixare tutto e ricominciare a scalare, se il gomito è guarito, o quasi sano. Quasi è sufficiente.
In orario con il cronometro e in ritardo con la cena, torno indietro con i miei amici. Un’altro momento che nessuno potrà togliermi da inserire nel logbook della vita. Alla prossima.
Christian Roccati
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