Se devo pensare alla mia montagna invernale, è questa: escursioni con le racchette, scialpinismo e ice-climbing. Come mia consuetudine, da solo. Non sono vincolato a una disciplina in particolare. Faccio quello che mi va e, da una stagione all’altra, può capitare che trascuri del tutto uno qualsiasi di questi modi di praticarla. Certamente, fatta eccezione per lo sci nordico che è l’unico tipo di attività “preconfezionata” che pratico, la mia filosofia non è molto diversa da quella estiva. Ossia cerco il più possibile il contatto con la montagna in quanto “luogo”. Come sempre difendo la libertà individuale, e credo che ognuno possa scegliere di frequentarla come lo ritiene, seguendo la sua “filosofia di vita”. Certo, personalmente ritengo che lo sci alpino, soprattutto quello di “massa”, sia quanto di più distante possa esserci dal vivere la natura d’inverno, attraverso un dialogo che tenti almeno di recuperare un’esperienza di tipo etico ed estetico. Se proprio devo fare una scelta, questa va a favore delle piccole località turistiche, dove lo sci alpino non esiste o se esiste rappresenta una porzione minimale dell’economia locale. Nei piccoli paesi di montagna, puoi ancora pensare nei termini della dimensione di “luogo”. Non voglio polemizzare, perché essendo cresciuto ai piedi del Monte Bianco, nessuno più di me è consapevole che la storia dello sviluppo turistico alpino di massa, passa dallo sci alpino, soprattutto nei primi anni 50, dalla costruzione delle piste, dalle funivie, dagli impianti meccanizzati, dalla trasformazione dell’urbanistica alpina e del tessuto sociale. Anche se a questo processo è corrisposta una perdita d’identità dei territori. Accettare lo sci come attività economica monoculturale, ha voluto dire per i montanari imboccare una strada spesso a senso unico, vincolandoli e privandoli della possibilità d’intravedere altri modelli di sviluppo. Capisco bene le rivendicazioni di chi oggi vive con preoccupazione quest’incertezza per il futuro prossimo. Ciò non toglie che sia impossibile pensare alle grandi stazioni dello sci come a dei “luoghi”. Anzi, molte di queste rientrano a pieno titolo nei cosiddetti “non luoghi”. Non devo stare a spiegare, in termini antropologici e sociologici, che cosa significhi e di quale natura possa essere il rapporto uomo-montagna dello “sciatore tipico”, la cui giornata inizia nelle cabinovie, perdura sulle seggiovie e si articola su e giù per piste più o meno affollate (ma spesso affollate), con tanto di pausa nei bar delle piste, anche questi affollati. Poi vi è il “doposci”, nel “villaggio” creato ad arte, dove non manca proprio nulla e non vie alcuna necessità di abbandonarne il “perimetro”. Il “non luogo” per eccellenza. Facile pensare che il cittadino, eticamente parlando, abbia soltanto l’apparenza di vivere un distacco reale dalla vita quotidiana e di instaurare un rapporto con la natura. Per molti, dopo vi è l’aperitivo, il pub, o la discoteca. Cose che si farebbero anche a Milano a Torino o a Genova. Ovviamente esistono alcuni esempi virtuosi, ma basta guardarsi intorno per capire a che cosa mi riferisco. Alla fine, il tutto si risolve in una grande giostra dove forse si pratica sport ma il dialogo con la natura è di fatto inesistente. Se si volesse, poi, fare un discorso “ecologico”, è fatto noto che i cambiamenti climatici abbiano posto un’ipoteca pesante sul futuro dello “sci di pista” e che certi accanimenti terapeutici come la neve programmata, a grande dispendio energetico, o addirittura l’ampliamento di alcuni comprensori siano quantomeno “discutibili”. Nemmeno voglio affrontare la questione heliski, perché, considerati i miei ragionamenti, il risvolto etico ed ecologico appare fin troppo scontato. Esiste però un’altra montagna, dove basta incamminarsi nel bosco nella neve (se c’è) con un qualsiasi “mezzo arcaico di spostamento”, basta che non sia “meccanico”. Dove fuori dal paese c’è solo la “montagna”, con i suoi silenzi, o al più con i suoi suoni ovattati. Dopo l’attività fisica, la conseguenza più naturale è quella di vivere da vicino la “comunità”, magari grazie a quattro chiacchiere curiose con la popolazione locale, che spesso i ritmi antichi ancora li vive, che parla una “lingua” che ha conservato grazie al fatto che le comunità non sono state completamente snaturate. Lì trovi ancora il prodotto genuino, non quello confezionato ad arte per turisti, la piccola trattoria che non è mai troppo piena. Certo, bisogna ripensare al proprio stile di vita, avere davvero il coraggio di “staccare” rinunciando alle comodità, al divertimento a tutti i costi. Togliere non aggiungere. Faticare, poco o tanto non importa, ma stare alle regole del gioco, quelle che impone la natura. Esistono diversi modi di “vivere la montagna”, non sono tutti uguali, e neppure tutti “sostenibili”. Non è vero che senza “sci” la montagna muore, e in ogni caso, per ovvie ragioni, è venuto il tempo di ripensare a un futuro diverso.