MENU

30 Agosto 2016

Ma dove sta la novità?

TairrazSta suscitando scalpore in questi giorni una foto scattata da una guida alpina (seria,  e che peraltro conosco fin da quando era “alle prime armi” come alpinista) di alcuni turisti improvvisatisi escursionisti presso il Colle del Gigante. Subito, ha fatto eco un’altra foto che ritrae una signora in infradito nel gruppo del Monte Rosa. Dove sta la novità? Sono più di vent’anni che discendo verso la Vallée Blanche e non conto le volte in cui, io e i miei compagni, ci siamo accorti di essere seguiti da occasionali avventori sprovvisti di qualsiasi attrezzatura alpinistica, anzi talvolta con le scarpe da città! Ricordo benissimo, agli inizi degli anni ’90, ciò che succedeva al rifugio Quintino Sella, al Felik, dove non arriva certamente la funivia. Grazie al breve tratto di trasporto garantito dagli impianti fino al Colle della Bettaforca e alla presenza di corde fisse lungo il percorso, si vedevano arrivare decine di escursionisti improvvisati, con scarpe inadatte, in maniche di camicia e braghe corte. Qualcuno si avventurava anche sul ghiacciaio seguendo le piste “battute” dagli alpinisti. Potrei citare altri esempi di un decennio prima, molti dei quali risolti anche in modo tragico ma qualsiasi alpinista ne potrebbe raccontare altrettanti.  L’incosciente improvvisava appena fuori dal Rifugio Torino, alla Testa Grigia, nel Gruppo del Monte Rosa e in decine di migliaia di altri sconosciuti angoli delle Alpi, in alto come in basso. Dove sta la novità? Sta nel fatto che quelle immagini oggi fanno il giro dei social net-work, sono condivise centinaia di volte, indignano il popolo degli alpinisti legittimati, stimolano noiose e inutili interviste sui blog di montagna a professionisti e a esperti, la cui risposta, ovviamente, è più che scontata. Nella maggior parte dei casi si tratta di portali che non saranno mai visitati dalla signora che va sul ghiacciaio in infradito e dalla coppia di fidanzati in blue jeans intenti a valicare crepacci. Il popolo degli alpinisti legittimati s’indigna e condivide, si spreca in commenti. Poi, delle volte, in parete o lungo una via ti capita di assistere a delle scene da brivido intentate da persone perfettamente bardate e attrezzate, talvolta pure “pataccate”. Scriveva Mazzotti: «Come esistono i lupi di mare, esistono anche i leoni della montagna. Hanno accenti di prestigiosa superiorità e raccontano episodi e prodezze che sarebbero divertenti o eroiche, secondo il caso, se non avessero quasi sempre il tono e l’aspetto di solenni guasconate. Probabilmente, se fossero vissuti nei tempi in cui si poteva ancora scovar selvaggina, anziché all’alpinismo si sarebbero dati con pari entusiasmo all’esercizio venatorio» (La Montagna presa in giro). L’imprudenza (e l’idiozia) non conosce limiti di quota e di terreno, calza infradito e veste tecnico. E’ sempre stato così e sempre sarà. Qualcuno,  giustamente, invoca la cultura della prudenza, altri, molto più pericolosamente, auspicano la cultura della prevenzione forzata. Vorrebbero veder gendarmi al posto dei cartelli ammonitori. Attenzione però, la cultura della prevenzione forzata potrà funzionare con l’infradito e i blue jeans ma sconfina assai più pericolosamente e subdolamente nel mondo delle corde, delle picozze e delle scarpette d’arrampicata, dove anche qui l’imprudenza è spesso oggetto di cronaca. E a preparare la strada alla prevenzione forzata, che è fatto assai diverso  dalla cultura educativa della prevenzione, siamo noi – spesso inconsapevolmente – con i nostri giudizi, ogni qualvolta leggiamo di un incidente occorso ad alpinisti, giudizi che facciamo rimbalzare in modo affrettato su social e pagine fb. Sono poi cattivi o improvvisati giornalisti della montagna che su testate web e no, caricano la mano alla ricerca ossessiva del fattore “imprudenza”. “Quello non avrebbe dovuto salire”, “quell’altro non avrebbe dovuto arrampicarsi da solo”,  “tizio era troppo giovane e inesperto”, come se vi fosse un vademecum che stabilisce i termini morali e interiori entro cui un singolo può osare o decidere di libero arbitrio la sua strada. Questo semmai lo può fare una cattiva, razionale e arida giurisprudenza, che alla fine pone divieti e sanzioni, uccidendo l’essenza stessa dell’alpinismo come il rischio e l’avventura, per la gioia di rivalse legali e compagnie assicuratrici che stritolano il mondo dell’associazionismo alpino e alla fine la stessa macchina del soccorso in montagna.  Costoro, dovrebbero in primis ricordare che la grandezza del soccorso in montagna risiede da sempre in un atto di generosità gratuita che non guarda alla capacità dell’individuo da soccorrere! Il soccorritore rischia la sua vita per un bene etico superiore alla sua salute stessa: il bene del prossimo. Altrimenti non sceglierebbe di fare il soccorritore e di rischiare a sua volta la vita salvando un individuo che, con preparazione adeguata o no, ha osato superare i confini di quella “normalità” che la società della sicurezza preventiva vuole a tutti i costi che manteniamo. Forse, in un domani non troppo lontano, butteremo nel cesso il geo-localizzatore di soccorso che ci avranno imposto di mettere al collo quando andiamo in montagna, strapperemo il patentino di abilitazione obbligatoria “da alpinisti” voluto da qualche legislatore e torneremo a pensare a un agire che sia frutto del nostro libero arbitrio e di una maturazione costruita con il tempo e l’esperienza. Nel frattempo, non stupiamoci ne indigniamoci troppo nel vedere ancora gentili signorine in gonnella o in infradito tra i crepacci.