Febbraio 1996. Alle 7 di mattina, con l’amico Luca Pinto, lasciavamo il locale invernale del Rifugio Paolo Daviso diretti alla parete nordest della Cresta est sudest del Dent d’Ecot 3082 m. La nostra intenzione era di compiere la seconda ripetizione della goulotte “Ghiaccio dell’ovest è sempre al potere”, un capolavoro d’intuizione firmato Grassi – Rossi – Stohr. Quasi quale segno premonitore di ciò che di lì alle ore successive sarebbe successo, va detto che calzavo gli scarponi da scialpinismo, questo perché due giorni prima avevo rotto i miei “Koflach”. Intendevamo fare la salita un po’ in velocità, e per questo si voleva scendere direttamente in doppia dalla parete fino alla base, senza “scavallare” sul lato del Ghiacciaio del Mulinet (fatto che ci avrebbe obbligato a un lungo rientro), approfittando anche della nostra conoscenza della montagna e delle vie su roccia già aperte da noi sul versante. Commettemmo così l’errore di lasciare gli zaini, piuttosto pesanti, nei pressi delle base. Eravamo piuttosto allenati su quei terreni e la salita filò via veloce. Dopo circa 250 metri però il tempo cambiò rapidamente, senza peraltro che fosse previsto. In breve ci trovammo sotto un vento fortissimo e una copiosa nevicata che, seppure ormai alla fine dei tratti più duri, ci complicò le cose e ci fece sbagliare pericolosamente l’uscita. Chi conosce quella zona sa bene cosa significhi lì “bufera”. Sotto l’intaglio del Dado, Luca, a cui toccava il tiro, superò un nevaio e finì su delle rocce ripide con due dita di ghiaccio sopra e una 15 di centimetri di neve fresca. Mentre piazzava un friend urtò la picozza che gli cadde rimbalzando nel camino sottostante per poi sparire nel nulla. Inutile dire che dovette fermarsi dov’era in posizione piuttosto precaria. Lo raggiunsi e proseguii fino all’intaglio sulla cresta in una stretta goulotte con tratti di misto, non facile a causa della nevicata in corso. Una volta in cima cercai con vari tentativi di fargli arrivare con una corda la mia picozza “Pulsar”. Queste operazioni d’emergenza, con la bufera e la discesa a questo punto d’obbligo verso il ghiacciaio, ci fecero ritardare di tre ore sulla tabella di marcia. In discesa con le doppie nella neve alta, a mia volta persi la macchina fotografica (è ancora là suppongo). Il rientro doppiando la cresta e battendo traccia nella neve alta fu lunghissimo e faticoso, sotto la nevicata sempre più copiosa e sempre più fitta. Ci vollero altre 4 ore per arrivare al punto di partenza e dissotterrare gli zaini. Della piccozza caduta nemmeno una vaga traccia. Erano le 16,30 e il rientro si prospettava alla luce delle frontali ma pur sempre nella bufera. L’idea era quindi di raggiungere il non distante Ricovero Ferreri (all’epoca davvero un “ricovero”). In un’altra ora e mezza, finendo pericolosamente fuori via più volte, raggiungemmo la “baracca”. Le sorprese non erano però finite. Non ci fu verso di riuscire a entrare ne dalla porta ne dalla finestra, forse gonfiate e inchiodate dal gelo dell’inverno. Neppure facendo leva con le piccozze. Alle 19,00, ormai non restava che scendere. Chi ha percorso il sentiero del Ferreri sa bene come sia malagevole già d’estate, figuriamoci in quella stagione, al buio e con oltre 30 centimetri di neve fresca. Per farla breve, risparmio imprecazioni, salmi e altro che recitammo nella discesa. Ma arrivammo, alla fine. Alle 22,30 entravamo al Savoia sotto lo sguardo stupito di Pietro Girardi che stava chiudendo i battenti. Dopo 16 ore e due cioccolate calde a testa, si concludeva la nostra seconda ripetizione “in velocità”…