Oggi, complice l’anomala temperatura “primaverile”, mi concedo la prima arrampicata solitaria sulla roccia del 2020. Il vallone della Gura è bellissimo, ultimo lembo delle Alpi Graie Meridionali incastonato tra la Vanoise e il Gran Paradiso. Lasciata definitivamente Courmayeur, da piccolo, ne ammiravo la poderosa catena di confine, forse perché le guglie mi ricordavano in qualche modo quelle del mio Monte Bianco. Ho costruito qui una parte importante del mio andar per montagne, diciamo pure del mio alpinismo. Su quelle vette, dove Gian Carlo Grassi, Gianni Comino, Gian Piero Motti, Ugo Manera e altri fuoriclasse dell’alpinismo occidentale lasciarono la loro firma, ho soddisfatto la mia sete esplorativa, d’estate e d’inverno, tracciando forse le mie vie più belle e impegnative. Lassù il concetto di “difficile” esula dal grado e si concreta in un totale isolamento, in una roccia delicata e in ritirate talvolta impossibili. Nel vallone della Gura, da ragazzo, per la prima volta ho raggiunto a piedi un rifugio. E’ il Paolo Daviso che ho visto ampliarsi e abbellirsi nel tempo. Un rifugio che ora gestisco per un breve periodo dell’estate. Come dimenticare, poi, il dirimpettaio Rifugio Ferreri? Esso fu costruito nel 1887 come “Rifugio della Gura” da due uomini che mi hanno sempre ispirato: Giuseppe Corrà e la guida Michele Ricchiardi, una cordata formidabile che scrisse pagine memorabili dell’alpinismo pionieristico subalpino. Dopo molti sforzi, nel 2013, grazie a due amici un po’ “visionari” come me, sono riuscito a vederne concesso l’affidamento al Club alpino accademico italiano e a farlo risistemare un po’. Oggi me ne prendo cura nei momenti liberi come uno dei miei “luoghi degli affetti”. Insomma, una serie di circostanze incredibili e fortunose mi lega a questo vallone, non ultima l’arrampicata. Fin dalla fine degli anni ’80, infatti, avevo messo gli occhi sulle numerose strutture disseminate nella parte bassa del bacino. Ricordo arrampicate coraggiose con pochi chiodi e qualche nut, con discese altrettanto avventurose in canali terribili o dalle piante che sporgevano dalle pareti. Si rientrava spesso a notte fonda facendo un breve passaggio allo spartano bar dell’Albergo Savoia di Forno Alpi Graie per scambiarsi i racconti delle avventure quotidiane a suon di emozioni ancora calde, spesso ingigantendo il tutto. Gian Carlo Grassi, così, aveva aperto la via più bella e dura delle Alpi occidentali, supportato in quest’affermazione indiscutibile dal buon Aldo Morittu che arrivava addirittura a dare gradi stratosferici. Angelo Siri, un “signore”, invece se la rideva un po’ in disparte. Il genepì versato nei bicchieri dalla signora Ines, ci aiutava a riprenderci dagli spaventi quotidiani e nella “gradazione” delle vie aperte. Dopo la morte di Gian Carlo, nel 1991, con Angelo e Aldo visitammo le pareti più nascoste del bacino della Gura, con uno stile che ci caratterizzava ancora in quei primi anni ’90: pochissimi spit-roc piazzati con il perforatore a mano e dal basso. Purtroppo, però, toccherà a me soltanto proseguire nell’esplorazione. Porto ancora sulle mani i segni delle martellate sbagliate dopo estenuanti posizioni sulle staffe e sui cliff-hanger, degli oltre duecentocinquanta spit-roc piazzati in questo modo. Ho ripreso in seguito con il trapano gli oltre sessanta itinerari che ho aperto su queste pareti, rendendoli più sicuri, e spesso mi piace arrampicarci in solitaria. Ripercorro volentieri queste mie vie, ciascuna delle quali mi riporta indietro a momenti diversi. E’ un po’ come sfogliare un album di fotografie, impresse nella mente. Ho scelto apposta di combinare una serie di tiri diversi, che mi condurranno in cima a questa parete di duecento metri. Come sempre dopo scenderò all’Albergo Savoia, anche se tutti quegli amici di un tempo non ci sono più. Verranno altri scalatori e seguiranno altre storie, perché ho imparato una cosa in questi lunghi decenni di montagna: non è mai vero che la storia “alpinistica” di un luogo conoscerà la parola fine. Domani occhi più attenti e più sognatori sapranno vedere oltre, dove noi non siamo stati capaci di guardare.